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domenica 20 novembre 2016

Focus sull’artista: Alessandro di Vicino Gaudio di Giulia Kimberly Colombo

Focus sull’artista: Alessandro di Vicino Gaudio
di Giulia Kimberly Colombo

Alessandro di Vicino Gaudio (Napoli, 1985) è il protagonista della mostra in fase di realizzazione alla Galleria Schubert di Milano. Dopo l’ultimo evento dedicato ad uno dei più importanti esponenti del movimento Madì (Materialismo Dialettico), Lorenzo Piemonti (Carate Brianza, 1935- Carate Brianza, 2015), la scelta per la nuova esposizione ricade su un giovane artista, portavoce di uno stile e un messaggio completamente diversi.
Gaudio nasce a Napoli, ma studia e si forma all’Istituto Statale d’arte “F. Russoli” di Pisa. Ottenuto il diploma in pittura nel 2004, si dedica a un’arte che indaga il reale e i rapporti sociali del mondo moderno con uno sguardo lucido, operando una critica puntuale sugli aspetti più inquietanti dell’odierno modo di relazionarsi della civiltà Occidentale.
L’Uomo è infatti al centro della sua ricerca: l’Uomo moderno con le sue angosce, le sue speranze, l’Uomo che entra in contatto con i suoi simili, non sempre secondo modalità pacifiche e intenzioni benevole. Tuttavia, l’individuo e le relazioni sono il campo d’indagine di Alessandro Gaudio e le sue opere riflettono il reale coinvolgimento che l’artista avverte nei confronti di una società sconvolta dall’avvento delle comunicazioni di massa, spersonalizzata da un uso smodato e irragionevole della tecnologia, iper-competitiva e spesso disumana nei confronti dei perdenti e di chi non viaggia al passo con cambiamenti sempre più rapidi.
La tecnologia, in particolare, entra prepotentemente nelle sue opere, sia dal punto di vista contenutistico, che tecnico: la serie Organic and Bionic del 2014 esplora il ruolo che la Tecnica riveste oggigiorno nella vita di ciascuno di noi, portando agli estremi le conseguenze del dispotismo della macchina sulle emozioni umane. La stessa Tecnica che però si mostra pericolosa e alienante, in queste opere diventa parte integrante del linguaggio di Gaudio, che la sfrutta per creare immagini in movimento e definire il suo stile, a metà strada tra la street-art e la video-arte. Questa duplice lettura dei fenomeni moderni, materializzata in quadri che combinano pittura e video, è uno dei aspetti più interessanti della visione dell’artista.
Attraverso lo scambio di idee intercorso nel tempo con il gallerista Andrea Schubert, Gaudio fa propria la riflessione di una figura fondamentale del mondo intellettuale e letterario italiano del secondo Novecento, Pier Paolo Pasolini, quando a commento di una sua opera, Obstacles (2016), riporta le parole del grande scrittore, poeta e regista: “Penso che sia necessario educare le nuove generazioni al valore della sconfitta. Alla sua gestione. All’umanità che ne scaturisce […] A non divenire uno sgomitatore sociale, a non passare sul corpo degli altri per arrivare primo”.
Si tratta di un riferimento estremamente significativo per un artista di una generazione, quella dei ragazzi e ragazze nati tra il 1985 e il 1995, alle prese con un surplus di violenza nel mondo, con una classe politica che non la rappresenta, portavoce soltanto di una retorica sguaiata e che parla ai ‘vincitori’, con un mondo del lavoro crudele ma esigente, con un futuro incerto e pieno di angoscia.
Gaudio con le sue opere intende senza dubbio criticare, svelare le dinamiche che portano ciascuno di noi a ‘obbedire’ ai condizionamenti imposti dal consumismo e dalla corsa al profitto, ma non perde una qualità che appartiene per definizione proprio ai giovani: l’idealismo. Non mancano spiragli di ottimismo, di apertura verso un ignoto, ma anelato, cambiamento sociale.

Forse proprio in virtù di questa ricerca che vede mescolarsi la disillusione e lo sconforto per il presente, ma anche un sentimento di positiva attesa per un futuro migliore, Alessandro Gaudio si mostra come interprete autentico e sensibile di quella società che ritrae e che spera, attraverso il mezzo dell’arte, di cambiare.

www.schubert.it/gaudio2
Giulia Kimberly Colombo e Alessandro Di Vicino Gaudio

martedì 27 settembre 2016

Lorenzo Piemonti Opere Madì


In collaborazione con il collezionista Maurizio Calvi, amico dell'artista, e della moglie in galleria viene allestita una mostra retrospettiva ad un anno dalla scomparsa di Lorenzo Piemonti.
L'esposizione si è concentrata sul fertile periodo in cui Piemonti, contribuisce a portare il pensiero Madì in Italia fondandone, con un gruppo di artisti una "congrega" coesa. Questa esperienza lo portò ad esporre in diversi paesi assieme ai fondatori del Madì argentino, paese d'origine.

La mostra incentrata prevalentemente su un nucleo di opere di piccole dimensioni, oltre ad essere un sunto della fertile produzione del maestro, vuole essere uno stimolo per approfondire la conoscenza di un artista che in circa sessant'anni di attività ha studiato, prodotto e contribuito all'evoluzione dell'espressione artistica del nostro paese.
Accompagnata da un catalogo con un saggio di Lorenzo Bonini e diverse testimonianze critiche la mostra può essere visitata in galleria fino al 29 ottobre 2016 o avere una carrellata delle opere sul sito della galleria: www.schubert.it/piemonti

giovedì 17 marzo 2016

Lilloni: centralità e marginalità dei suoi luoghi

Tralasciando l'attività creativa dei primi anni quando, reduce dal fronte e carico di quei valori estetici appresi in accademia indissolubilmente legati all'arte di fine ottocento, pregni degli ideali della scapigliatura, entra nel novero di Novecento e concentrandoci sul periodo che maggiormente ne ha identificato l'arte, cioè quello del Chiarismo lombardo, non possiamo ignorare l'importanza del luogo in cui Lilloni dipinge. Ed è la centralità del luogo che, in quanto strumento, in apparenza dovrebbe essere evidenziata. Infatti, parlando di un pittore  en plein air, i luoghi da cui le opere prendono spunto assumono un significato particolare anche se, in questo caso, potenzialmente marginale. Ed è proprio la marginalità del luogo rispetto all'opera che si vorrebbe qui evidenziare, in quanto l'arte di Lilloni non è certamente un arte mimetica. L'opera non è semplice rappresentazione cronistica e banalmente descrittiva, ma subisce quella metamorfosi poetica che l'artista attinge dal proprio repertorio di cose e di colori depositato nel suo io più intimo, depurate dal tempo e dall'esperienza e trasformate in altro. Appare chiaro così che la natura dipinta è una proiezione interiore e che il paesaggio sia il luogo specifico che aiuta a far emergere quella interiorità che altrimenti rimarrebbe inespressa. Una sorta di catalizzatore emozionale che l'artista trova solo entrando in una condizione di solitudine completa, in stretto contatto con la natura, senza altro fardello se non tela, colori ed occhi.


Per Lilloni il paesaggio diventa auto riferimento linguistico: una rappresentazione soggettiva, lirica, legata all'emozione dello stato d'animo. Potremmo arrivare a dire che il paesaggio, e quindi il luogo, è un semplice pretesto, un elemento compositivo come per altri potrebbero esserlo il cerchio ed il quadrato. 
Ma se il paesaggio è il pretesto, il luogo è comunque necessario e centrale. Il luogo, che è altro da se, divenuto proiezione del proprio io, viene trasposto come idea su tela.
Uno specchio in cui riflettersi; una idealizzazione con cui confortarsi.
Ad avvalorare questa ipotesi troviamo, nell'evolversi del pensiero artistico e nell'affinamento della ricerca in età matura, tronchi con cortecce violacee, foglie blu, algidi colori che costruiscono una realtà emozionale che prescinde dal fenomeno ottico e si arrocca in quello inconscio.
Addirittura, cercando di farsi capire meglio, Lilloni arriva a dipingere opere con delle forme assimilabili a delle astrazioni. Non che queste opere siano il punto d'arrivo, l'obiettivo ultimo da raggiungere. Al contrario. Sono però fondamentali per la piena comprensione del modus operandi; ovvero del processo creativo che, in altre parole, è l'estetica dell'opera artistica. Lilloni rimarrà fedele alle proprie fonti d'ispirazione e al modo di trovarle dentro di se attraverso il "fuori" da se. I luoghi che periodicamente visitava e dipingeva sono la centralità e nel contempo la marginalità del suo fare artistico.






mercoledì 9 marzo 2016

Umberto Lilloni articolo di Lauro Giuliani su Gazzetta di Mantova 18 marzo 1955

In un lontano giorno dell'aprile 1922, nella grande sala del Campidoglio in Roma, presente il Principe Erede, il segretario della commissione della prima Olimpiade Universitaria chiamò ad alta voce il nome di Umberto Lilloni, vincitore nella classe della pittura. Vi fu un silenzio prolungato. Mentre fra i ministri e le autorità che facevano ala al principe, si determinava una certa perplessità, il segretario ripetè forte il nome di Umberto Lilloni. Questa volta una voce squillante rispose «presente»: un giovanotto si alzò dal fondo della sala, l'attraversò con passo deciso, si fermò davanti ai personaggi, con un corretto inchino strinse la mano che Umberto gli tendeva sorridente, ricevette medaglia, diploma e congratulazioni, infìlò la testa nella corona d'alloro che il ministro dell'istruzione pubblica teneva alzata a due braccia, ringraziò con un altro inchino, e fra gli applausi della folla di invitati riguadagnò il posto in fondo alla sala. 
Quel giovane non era Umberto Lilloni. Era un amico di Lilloni, si chiamava Peppino Ingegnoli e aveva così risolto il dramma dell'autentico premiato che, paralizzato dall'emozione e dalla timidezza, continuava a stare immobile sulla sedia accanto, la fronte rorida di sudore. Usciti dal Campidoglio, in una trattoria fuori mano, assenti il principe e i ministri ma presenti altri giovani pittori, Lilloni veniva incoronato col lauro alla fine della cena, riceveva medaglia, diploma e congratulazioni e naturalmente pagava per tutti. 
Strana timidezza quella di Lilloni, sol che si pensi che nella guerra 1915-18 l'allora giovanissimo pittore - che era nato nel 1898 - era stato combattente e decorato nei battaglioni d'assalto sul Carso e sul Piave.

***

I Lilloni sono di Medole non si sa da quante generazioni. Forse anche il capostipite nacque fra quella pacata gente dell'Alto Mantovano, sobria e lavoratrice, che deve sgobbare di buona schiena per strappare messi e frutti alla terra non certo prodiga. Da tempo immemorabile la gente del luogo chiama i maschi della famiglia Lilloni non col nome o col cognome, ma con l'attributo di « Capo ». Il perchè non è bene accertato. Sembra che l'origine dell'appellativo discenda da un Lilloni, avo di Umberto, che sarebbe stato il capo di una banda di briganti; ma se le leggi della ereditarietà hanno un sia pure minimo significato, bastano a smentire la incerta leggenda, gli occhi limpidi del pittore e il suo faccione straordinariamente ottimista che non richiama certo tenebrosi pensieri. 
Francesco Lilloni suo padre, era un bravo mobiliere, attivo e intelligente. Un fratello di questi, il notaio Luigi Lilloni acquistò fama di sconcertante originalità a Poggio Rusco dove visse lungamente e dove si spense. Il padre di Umberto avrebbe voluto iniziare il ragazzo nella sua stessa attività artigiana, tanto più che rivelava eccellenti attitudini al disegno. Ma il giovane la pensava diversamente e il richiamo potente della pittura agì ben presto sul suo spirito candidamente fidudoso, portato alla interpretazione figurativa della natura, particolarmente delle piante e delle acque. Non senza contrasti perciò, potè iniziare gli studi che lo condussero ben presto all' Accademia di Brera dove, allievo di Tallone e di Alciati, impose le eminenti qualità che lo condussero ad eccellere rapidamente. Il suo vero maestro però fu Emilio Gola alla cui espressione si mantenne fedele pure affermando la propria riconoscibile personalità. 
Invitato a tutte le Biennali veneziane dopo il 1928; insegnante per quindici anni all'Accademia di Brera che l'aveva avuto discepolo; vincitore nel 1922 oltre che della citata Olimpiade Universitaria, del Premio Hayez; nel 1927 del Premio Principe di Piemonte; nel 1933 del Premio Fornara e della medaglia d'oro del ministero dell'Educazione Nazionale per i Premi Golfo di Spezia; nel 1935 ancora del Premio Fornara; nel 1937 della medaglia d'oro alla Mostra universale di Parigi, del Premio per il Paesaggio Monzese r di quello per il Paesaggio Lecchese; nel 1939 del Premio Ricci, del Premio alla Mostra di Bergamo Antica e del secondo premio del Paesaggio Italiano; nel 1941 del secondo premio alla Mostra di Bergamo; nel 1946 del Premio Burano; nel 1947 del secondo premio per il Paesaggio del Garda; nel 1950 del Premio acquisto Michetti, per non citare che i più significativi, Lilloni ha esposto con successo in quasi tutte le capitali europee, ed ha avuto acquistate sue opere da Vittorio Emanuele III, dal Presidente Einaudi, e nello scorso anno dalla regina Federica di Grecia.

giovedì 3 marzo 2016

Qualcosa in più su Lilloni

MARIA LUIGIA LILLONI


di Gino Traversi


da Donne di artisti
Istituto Europeo di Storia dell'Arte - Milano
1965




Il pittore Lilloni ha la natura nel sangue e, inconsapevolmente, andò incontro alla sua donna mentre si recava in un verde paradiso dell'Alto Bergamasco, Serina, località allora alla moda per i villeggianti lombardi. Umberto Lilloni aveva ventisette anni ed il suo pensiero dominante era dipingere. Lassù c'erano la madre e la sorella e, anzitutto boschi e montagne in attesa del suo già abile pennello. Maria Luigia non aveva mai avuto alcun rapporto con l'arte, nè si era mai interessata all'attività della sorella lsa pittrice che la presenterà al pittore milanese di cui non aveva mai sentito parlare prima. Il breve soggiorno a Serina fu sufficiente all'intesa tra i due giovani, che una volta tornati alle proprie abituali dimore iniziarono una fitta corrispondenza epistolare.
Maria Luigia Ghisleni abitava a Bergamo dove era nata nel 1906. Non era bella, nè particolarmente curata nell'abbigliamento, aveva però ricevuto buona educazione in un ambiente ispirato alla massima semplicità di costume. Suo padre, notissimo avvocato bergamasco, era dotato di sentimenti assai umani e democratici ed il carattere della fanciulla ne fu influenzato più che da quello autoritario e distaccato della bellissima madre, Compiuto il ginnasio Maria Luigia, che pure riusciva bene, non contlnuò gli studi forse a causa dei numerosi fratelli e sorelle, quattordici complessivamente. E' vero che tra governanti e camerieri almeno cinque persone prestavano servizio in famiglia, ma c'era sempre da fare, e per tutti.
L'incontro con Lilloni dovette apparire alla ragazza anche un ottimo mezzo per uscire dai limiti angusti della famiglia. Aveva diciannove anni e nessuna esperienza, nessuna ambizione. La sua esistenza ora divisa tra casa e libri, non frequentava divertimenti o amicizie. Non bisogna dimcnticare che correva Il 1925 e la personalità di un artista faceva allora colpo più di quanto ogi si possa immaginare. Maria Luigia rimase affascinata dal giovane, aitante pittore e puntò direttamente al matrimonio. I suoi erano molto meno entusiasti e tali rimasero anche dopo l'unione della coppia.
Lilloni quando si recò a Serina a tutto pensava fuorchè al matrimonio. Figlio di un piccolo industriale mobiliere milanese con due negozi in città, viveva senza troppe preoccupazioni. La guerra cui partecipò combattendo nelle file degli arditi, aveva si interrotto i suoi studi accademici, ma già da tre anni si era diplomato ed insegnava disegno all'Umanitaria, guadagnando duecento lire al mese. Alto, magro, spigliato, quantunque intimamente timido, non difettava di quelle qualità che piacevano alle donne. A quell'epoca le modelle erano numerose e facilmente accessibili e qualcosa di insolito dovette colpirlo se si decise subito al gran passo. Forse fu proprio quel senso di ordine e di civiltà che circondava Maria Luigia, oltre alla sua figura formosa e al carattere docile, che condussero l'artista al matrimonio. Dopo solo un anno, difatti, si sposarono a Bergamo. Stabilitisi a Milano in una casa della vecchia, centrale via Pasquirolo, ove Lilloni era cresciuto in un ambiente vivacemente descritto da Mario Lepore nella recente monografia dedicata all'artista, è nata subito
l'anno successivo, la prima figlia Adele, le difficoltà non tardarono a presentarsi. L'azienda paterna, senza l'apporto di Umberto, per il quale era stata creata, languiva. Il pittore, che non vendeva assolutamente quadri, doveva fronteggiare le necessità con il suo solo modesto stipendio: era un problema far quadrare il bilancio resosi ancora più pesante con la nascita di Luciano nel 1929. Pochi mesi prima Lilloni, sempre alla scoperta di nuovi scorci e macchie verdi da dipingere, si recò con la moglie e la figlioletta a Montù Beccaria nel l'Appennino pavese. L'abitato non era nè piccolo nè grande; i Lilloni non riuscendo a trovare un alloggio non esitarono, anche nella prospettiva di limitare le spese, ad accettare l'ospitalità del piccolo teatro locale. Si sistemarono sul palcoscenico e come in una recita si potevano vedere due quadri simultanei: il pittore che dipingeva da una parte, la moglie che cucinava dall'altra sopra un fornellino a petrolio. Immediatamente si sparse la voce che erano arrivati i «commedianti» e nelle sere successive non poche furono le persone giunte dai dintorni per assistere allo spettacolo. E' facile intuire il disagio della giovane sposa che però già a Milano aveva avuto di che modificare le abitudini della opulenta casa paterna. L'abitazione della pur nobile via Pasquirolo, centro della vita culturale ed artistico-musicale del tempo, era una vecchia casa priva di servizi igienici e di luce. In pochi anni il peso della florida Maria Luigia era sceso da circa settanta a quarantatrè chilogrammi. E ciò non solo in dipendenza delle pessime condizioni ambientali della casa, ma anche per il lavoro che davano i due fìglìoletti e per la scarsezza di mezzi finanziari. Ma ne usciva temprata nello spirito e pronta a sostenere lo scarso ottimismo del marito che meglio si potrebbe definire pessimismo. Ben presto il piatto fondamentale di ogni pasto fu la polenta che Mariuccia - così ama chiamarla il marito - cucinava e cucina ancor oggi in maniera eccellente. Erano tali la parsimonia e lo spirito di adattamento di questa donna che riuscì a suscitare non so quale festa intorno ad un piatto di polenta con l'aggiunta, eccezionale, d'un piatto di patate condite da parte del figlioletto Lucio in occasione del suo quinto compleanno. Gli adulti non erano meno soddisfatti dei bambini di ciò che poteva offrire Maria Luigia. Nella casa di via Pasquirolo sovente capitava all'ora di pranzo Edoardo Persico, e, non di rado, Birolli e Manzù che a notte avanzata si accompagnavano con Lilloni. In tali circostanze Maria Luigia si alzava compiacente per preparare la rituale polenta agli amici. Una volta Lilloni riuscì a cambiare quadri con vino buono e la cucina rimase letteralmente invasa da bottiglie accatastate. Intanto il pittore era passato ad insegnare, in qualità di professore incaricato, all'Accademia di Brera senza sensibile miglioramento della situazione economica generale.
Il suo più caro amico di quegli anni era indubbiamente il critico Persico, che, come giustamente ha scritto di recente Aligi Sassu: «In un'epoca grigia e senza speranze seppe mantenere fede alle lucide avventure del pensiero». L'ambiente artistico milanese, in verità, era sin dal primo dopoguerra grigio e stagnante. Lilloni, appena uscito dalla pigra atmosfera dell'Accademia, mise su studio assieme ai pittori Ghiringhelli e Del Bon - in via General Govone - e si dette, con i due colleghi, a frequentare assiduamente lo studio di Emilio Gola sistematicamente osteggiato da tutto l'ambiente locale. Antiaccadernico e anticonformista, il vecchio maestro era considerato dai tre giovani, segnatamente per la rottura operata nella forma e nel colore, un autentico rivoluzionario. Nel suo studio di via S. Paolo, asserisce Lilloni, nel 1923, nacque il «chiarismo ». Il giovane artista, sincero ammiratore di Sironi, aveva fatto fino a quel momento una pitura scura basata sui bruni e con uno spiccato senso plastico che denunciava chiara discendenza sironiana. Egli aveva guardato attentamente e con profitto alle espressioni avanzate del momento: da Sironi a Carrà, da de Chirico a Giandante X, ma il suo temperamento essenzialmente e semplicemente artistico rifuggiva da ogni sovrastruttura culturale. Insofferente ad ogni costrizione, politica o non, solo al contatto con la pittura di Gola scoprì veramente se stesso, capì che la luce, la natura erano la via da seguire per costruirsi uno stile proprio, per esprimersi genuinamente e senza alcuna interferenza al di fuori della fantasia e dello intuizioni poetiche. La nascita del « chiarismo », ad opera di Lilloni e Del Bon, va soprattutto intesa quindi come ritorno alla natura ed i loro primi quadri del '23 come presupposto dello sviluppo futuro. In pieno Novecento Lilloni non riuscì ad esporre una sola volta. Alla prima apparizione d'un suo quadro, nel '27, fu premiato col massimo riconoscimento ufficiale dell'epoca: il « Premio Principe Umberto». Nel '29 allestiva finalmente la sua prima mostra personale alla Galleria Bardi. Era l'anno in cui Persico da Torino si trasferiva a Milano. Arrivava al momento giusto quell'ingegno aperto, sensibile, equilibrato e coraggioso a sostenere e a difendere le idee ed il lavoro di molti artisti liberi, genuini, il cui solo torto, non più e non meno di come avviene oggi, era quello di non gradire la protezione di alcuno o l'appartenenza ad un determinato gruppo. La reazione al Novecento intorno al '30 era in pieno svolgimento: nella capitale la cosiddetta Scuola Romana, a Torino il Gruppo dei Sei, il Chiarismo a Milano, dove pure andava prendendo corpo la corrente astrattista.
Il termine chiarismo venne fuori nel '39 coniato da Guido Piovene in occasione di una mostra personale di Lilloni alla Galleria Grande di via Dante. Ma le sue origini, come abbiamo testè accennato, sono da porsi ben più lontane, così come la prima manifestazione pubblica che ebbe luogo nel '31 alla Gaueria del Milione in una mostra collettiva, cui parteciparono, tra gli altri, L illoni , Pittino, Birolli, Sassu e Tomea. L'opposizione del « chiarismo» era istintiva, e se per tale s'intende - come si deve - non solo una pittura a fondo chiaro ma un ritorno alla semplicità e alla costruttività della natura, alla resistenza al Novecento in qualità di chiaristi parteciparono, oltre Lilloni e Del Bon, anche De Rocchi e De Amicis, cui, più tardi, si aggiunse Spilimbergo. Se il luogo di discussioni e di studio strategico dei «rivoltosi» era il bar Mokador, in piazza Beccaria, ove Persico aveva sempre pronta una parola d'incoraggiamento o di decisa disapprovazione, il campo d'azione si estendeva negli studi degli artisti annidati nella casa rossa di via Solferino ove Lilloni lavorò fino al 1938. Intorno al '40 il « chiarismo » si concretizza e matura conseguendo una differenziazione tra i linguaggi dei singoli esponenti, ove quello di Lilloni si distinguerà per il suo autonomo mondo poetico. La lunga lotta ormai va spegnedosi. Proprio nel '40, infatti, Lilloni rifiuta l'invito di Barbaroux ad esporre nella sua galleria - possibilità che gli era stata negata qualche anno prima con la comoda scusa del «tutto prenotato» - per legarsi alla Galleria dell'Annunciata.
Nel frattempo la famiglia Lilloni era andata ad occupare un appartamento piccolo ma molto più confortevole di quello precedente in piazza Grandi.
Le ristrettezze, i sacrifici continuarono ancora nonostante il pittore fosse nominato nel '41 titolare della cattedra di decorazione pittorica a Parma. Maria Luigia, sempre docile e sottomessa, aveva mantenuto saldamente il fronte familiare, come il marito lo aveva mantenuto fuori, nel suo campo, senza mai interferire minimamente nell'attività dell'artista. Anche quando Lilloni dovette assentarsi per parecchi mesi per andare a dipingere in Svezia - l'ultimo paese romantico d'Europa come egli lo definisce - Mariuccia si mostrò accondiscendente e paziente. Poi nacque, nel '46, Renata, ora studentessa e avviata anch'ella, come i fratelli, agli studi universitari e la famiglia aumentò gradualmente anche in benessere e tranquillità. « Abbiamo sempre vissuto con i centesimi» mi dice Lilloni avvolto nella sua casacca verde bandiera, sorridente e gioviale, dimentico, per un momento, dei suoi acciacchi, mentre nel suo magnifico studio di via Sismondi quasi non si riescono ad immaginare le difficoltà ed i sacrifici che hanno preceduto, e da non molto, l'agiatezza odierna. La signora Maria Luigia mi guarda con lo sguardo sorridente e timidamente orgoglioso, discreta nei suoi interventi come per tutta un'esistenza lo è stata nei riguardi dell'attività del marito. Il che non è poco.

mercoledì 2 marzo 2016

La vita di Lilloni

La vita di Lilloni


Mario Lepore


da Lilloni la vita e le opere
Editrice Ponte Rosso - Milano
1963



Umberto Lilloni ha sessantacinque anni. Appartiene dunque a quella schiera di artisti che si formarono nel ventennio successivo alla prima guerra mondiale. Quando questa scoppiò, Lilloni, ch'era giovinetto - è nato nel 1898 - incominciava a frequentare Brera. L'iscrizione all'Accademia milanese di Belle Arti, dopo aver frequentato i corsi della Scuola Professionale della Umanitaria, dai quali era uscito esperto ebanista, non andava a genio a suo padre. Papà Lilloni, un mantovano emigrato a Milano nel 1877, era un uomo pratico e autoritario. Artigiano abile e lavoratore tenace, a furia di sgobbare, era riuscito a mettere su una fabbrichetta di mobili con diversi operai e a far prosperare la sua piccola industria. In famiglia, una famiglia che poteva dirsi agiata e che viveva senza mancar di nulla ma tuttavia modestamente, con quello spirito di onesta parsimonia, che fu caratteristico della borghesia milanese e italiana prima che le conseguenze economiche di due guerre non ne mutassero totalmente la mentalità risparmiatrice e ne accrescessero continuamente i bisogni, in famiglia, si diceva, egli era patriarca. Patriarca nell'amore geloso - è però pudicamente celato sotto una scorza di ruvidezza - per i suoi, che voleva sentire tutti stretti a lui; patriarca nell'esigere rispetto assoluto di quella «patria potestas» che egli esercitava con intransigenza, senza ammettere che le sue decisioni fossero minimamente discusse. Umberto, che accanto alla tenacia, alla forza morale, all'onestà ereditate da lui, aveva una fantasia prontamente eccitabile, una sensibilità fortemente ricettiva, un temperamento romantico, era destinato ben presto a scontrarsi col padre. L'urto si delineò quando era ancora un ragazzo. I Lilloni abitarono, fino a quando Umberto ebbe una decina d'anni, a Porta Tosa,
Porta Tosa
come allora si chiamava popolarescamente a Milano Porta Vittoria. Poi si trasferirono in centro, in via Pasquirolo. Le bombe dell'ultima guerra e la sciagurata edilizia camuffata da architettura dei casoni che la sfrenata speculazione sulle aree del centro ha assurdamente poi fatto sorgere nel cuore della città, Oggi al suo posto è una specie di passaggio coperto, che cerca di nascondere la sua miseria architettonica col solito fasto di marmi e cristalli, ma allora c'erano lì delle antiche case di quel ricco colore ocra gialla, tipico colore della Milano ottocentesca, e botteghe dove accanto al «prestinèe» c'era l'antiquario e al caffè raccolto e vecchiotto dove si adunavano anziani professionisti, succedeva il negozio di strumenti e musiche. Un nome famoso nella cultura italiana, Sonzogno, dava alla strada una corona di nobiltà: da via Pasquirolo arrivavano in tutti gli angoli d'Italia le dispense dei classici illustrati e gli opuscoli della
via Pasquirolo e via San Zeno
Biblioteca Universale di cultura, i libri per le scuole e gli spartiti d'opera stampati da Sonzogno. E gli uffici e la tipografia della vecchia e benemerita casa editrice erano la meta dei letterati ed artisti. Per via Pasquirolo potevi vedere, poniamo, Eugenio Camenrini, canuto e assorto, o Mascagni con i capelli buttati all'indietro. Trapiantato in quella via, Umberto Lilloni, fanciullo, cominciò ad avere i primi contatti con il mondo intellettuale ed artistico. Contatti naturalmente da ragazzetto, fatti di nonnulla, ma che gli stimolarono la fantasia. Cominciò a sognare di essere ingegnere navale (e per un «terragnolo» è uno sforzo di immaginazione notevole). Lo disse in  casa, ma il padre lo guardò brusco: che razza di idea era quella! Umberto non si diede per vinto: forse avrebbe persuaso il suo patriarca con i fatti. Era un discolo che a scuola andava svogliato e profittava pochissimo; diventò studioso, cercò di farsi amico dei libri. Fu però vano sforzo: invece di mandarlo al ginnasio, il padre lo iscrisse alle scuole professionali: doveva essere artigiano, l'azienda familiare aveva bisogno di un buon ebanista per adesso, poi di un capo che la mandasse avanti; non di ingegneri: nè navali nè d'altro genere. La Scuola dell'Umanitaria mise il giovanetto d'innanzi a un mondo nuovo: il disegno, disegno geometrico, disegno di ornato, disegno di figura. Era abbastanza per risvegliare la vera vocazione di Lilloni: l'arte. Contemporaneamente, il contatto con quei ragazzi prevalentemente di famiglia operaia lo portò verso il socialismo. Socialismo, come allora era inteso da tanti, venato di umanitarismo, con molti accenti romantici, molta eloquenza, tribunizia, che certo non potevano mancare di esercitare il loro fascino su un giovanetto il quale, sebbene appartenesse ad una famiglia borghese, era cresciuto e cresceva tuttavia a contatto con gli operai del laboratorio paterno, e con i coetanei delle classi meno abbienti. Agiva inoltre sul temperamento vivace, aperto e generoso, a casa stretto ad una obbedienza rigorosa dalla disciplina fermamente imposta dal padre, la seduzione di una dottrina allora definita sovversiva dai cosiddetti ben pensanti, e quelle parole avvenire, umanità, proletariato, ribellione, lotta di classe avevano per il giovanissimo Lilloni, certo senza che lui se ne avvedesse, anche un senso molto diverso da ciò che veramente significavano in politica, un senso tutt'affatto personale, di opposizione inconscia al «regime» familiare. Oggi diremmo che quest'ultimo aveva generato in lui un complesso di costrizione, che lo portava, fuori dall'ambito domestico a reazioni del genere. quando nel 1914 scoppiarono le agitazioni operaie della famosa «settimana rossa», Lilloni, la cui vivacità naturale si traduceva anche in una inclinazione all'azione violenta, alla temerarietà, a un certo, diciamolo pure, con una parola alla moda, «bullismo», partecipò ai moti coi socialisti dell'Umanitaria. Venne arrestato e lo portarono a San Vittore. Ritornato in famiglia qualche giorno appresso, i rapporti col padre furono molto tesi e ancora più aspra si fece la situazione quando nel 1915 si iscrisse all'accademia di Brera. Questo figlio socialista che voleva diventare pittore era una vera spina nel cuore del signor Lilloni, che non rinunziò tuttavia alla maniera forte. Umberto doveva lavorare in laboratorio, non c'erano scuse. Ma il giovanotto, che non era meno duro e tenace del padre, non si lasciò smontare per questo. Si dedicò all'arte in tutti i ritagli di tempo libero: si alzava la mattina prestissimo per andare fuori a dipingere, scappava a
Brera appena poteva, disegnava di nascosto al lume di candela; in quegli anni avrà dormito si e no quattro ore per notte. Una continua tensione, un continuo affannarsi, tra il lavoro dell'azienda paterna e quello artistico. Per giunta c'erano anche le complicazioni politiche: la guerra europea era scoppiata, l'Italia si dibatteva tra intervento e neutralismo. Lilloni era corridoniani, cioè apparteneva alla corrente del sindacalismo socialista, favorevole alla guerra a fianco della Francia, dell'Inghilterra e della Russia.
Perciò andava alle manifestazioni per l'intervento, che spesso finivano a botte con i neutralisti, quando non era con la polizia che sopraggiungeva a sciogliere comizi e cortei. Tuttavia, gli studi artistici, continuavano con profitto.
A Brera i primi insegnanti del giovanetto furono Bignami e Rapetti. Il primo era un romantico «scapigliato» lombardo, che col pseudonimo di «Vespa» fu un caricaturista rinomato ai suoi tempi e tuttavia anche un pittore di buona vena; il secondo era un conoscitore esperto del mestiere, artista piuttosto accademico, anche se col correttivo di un cauto parziale echeggiamento cremoniano. Rapetti, nemico  delle novità, non aveva vita facile a Brera, dove c'era l'aria di fronda, cui egli si sforzava in vano di reagire, senza comprendere che un nuovo clima si andava determinando. I Futuristi, ancorché molto beffeggiati dal grosso pubblico, che non li capiva e che essi si divertivano a mandare in bestia come le loro clamorose manifestazioni, violentemente discussi anche negli ambienti  artistici, avevano rotto il ghiaccio, gettando un grosso sasso nelle acque stagnanti dell'arte italiana del tempo. Un'arte, salvo rari casi, provincializzata se pure non mancante di fermenti, che però non riuscivano a creare una crisi benefica, e dominata da un retorico ed eclettico gusto accademico  ufficiale per il quale i Tito, i Bistolfi, i Grosso, i De Carolis, e altri artisti, non privi di doti e di mestiere ma molto inferiori alla fama conquistata e lontani dai vari e nuovi indirizzi che l'arte aveva assunto in Francia, Germania, Austria, Scandinavia, avevano una netta posizione di preminenza.
Il nuovo clima, pur con la scarsezza di informazione che c'era all'ora, veniva avvertito dai giovani, sempre molto sensibili in ciò, ed era naturale che i più vivaci ed aperti di ingegno, che frequentavano sia Brera che altre accademie italiane, avessero un atteggiamento polemico, discutessero su tutti e su tutto senza riguardo.
Quei ragazzi talora azzeccavano, talora sbagliavano, come sempre accade; ma gli errori, in una così grande ansia di revisione dei valori, di ricerca di nuovi punti d'appoggio erano ben perdonabili. Del resto gli errori sono sempre perdonabili a chi agisce con generoso disinteresse, con lo slancio del giovane inesperto che esplora la via artistica, e se stesso. Solo quando l'arrivismo viene a sostituire la nobile ambizione di imporsi facendo esclusivamente leva sul proprio talento, costi quel che costi; solo quando per ignoranza o malafede si vuol gabellare come invenzione la mediocre trovata, e per novità la formula vecchie di anni e furbescamente lucidata a nuovo; solo quando si definisce rivoluzione l'accademismo più vieto, cercando, come sovente avviene oggi, più la via del successo che quella dell'arte: solo allora gli errori dei giovani non sono perdonabili, perchè perdono tutto il loro valore di disinteressata esperienza se pure negativa ma sempre esperienza (non dice il vecchio adagio che sbagliando si impara?) e diventano menzogna, pura e semplice menzogna.
Nella fronda di Brera, Lilloni non si distinse subito. I primi tempi studiò soprattutto per apprendere il mestiere. Poi, dopo la guerra, quando ritornò in Accademia, fu diverso. Sentiva di avere in sè qualcosa ed era ottimista di natura. Se si aggiunge questo agli altri lati del suo carattere e alle condizioni di vita e di ambiente, ci si spiega facilmente come diventasse presto pretenzioso: credeva di essere poco meno di un genio, se non addirittura un genio. Inoltre, come succede in questi casi era un genio piuttosto verboso, sputa sentenze, difficile nei gusti. Essere difficile nei gusti è abbastanza facile quando la conoscenza è insufficiente e le idee sono poco chiare: è un fatto che si può riscontrare spesso anche di questi tempi. Lilloni, allora, incominciò con la rituale rottura con il passato: gli antichi furono assoggettati ad aspre critiche, specie Raffaello, del quale poi in realtà conosceva solo lo Sposalizio della Vergine di Brera e le riproduzioni di alcune opere. Tuttavia, queste idee storte si incaricarono di modificargliele pian piano i fatti. E quando più tardi capitò a Roma durante il primo sospirato viaggio d'istruzione, nella Galleria Barberini, presenti alcuni amici di Brera -che furono soprattutto Del Bon, De Amicis, Bogliardi, De Rocchi, Ghiringhelli, Moro, Lingeri, Carrera, Bertolazzi, Conte, Donini, Barbieri, Carpanetti, Paietta- ci fu l'improvvisa conversione. Innanzi alla «Fornarina», tutt'a un tratto si inginocchia e recita un curioso «mea culpa » in milanese, chiedendo perdono a Raffaello a gran voce, mentre i compagni ridono divertiti e beffardi. È un aneddoto abbastanza indicativo sotto tutti gli aspetti, e rivela, mi pare, anche un altro lato della natura di Lilloni, che poi sarà uno dei fondamenti psicologici della sua arte: un profondo candore, la capacità di abbandonarsi per intero, senza ritegno  all'emozione. Ed anche una umiltà, un'onestà a tutta prova, chè, conveniamone, non erano, non sono e non saranno mai molti quelli disposti a riconoscere così bruscamente e ampiamente «coram populo» di avere sbagliato.
Ma ritorniamo alla cronaca ordinata.
Nel 1917, il filo degli studi a Brera si spezza: Lilloni ormai ha diciannove anni, e si arruola per andare a combattere per la guerra che anche lui ha chiesto, come mille e mille altri. Dopo due mesi di frettolosa istruzione, in maggio lo spediscono al fronte. È in fanteria, più tardi sarà ardito. Si batte sul San Marco, a Vertoiba, a quota 144, e in tante altre località ancora nei due anni in cui partecipa alla lotta. La guerra lo riconcilia con il padre: i due che, dal 1915 non si parlavano quasi, si sono riabbracciati il giorno che il ragazzo ha varcato la soglia di casa vestito in grigioverde e adesso quelle cartoline in franchigia con poche parole che Umberto spedisce dal fronte, il padre le aspetta con ansia tuttavia gelosamente celata. La madre -che Lilloni adora- prega Iddio giorno e notte affinchè le salvi quel figlio per il quale ha fatto tanti sacrifici e che, con l'istinto prodigioso delle mamme, ha capito molto più profondamente del marito, cercando di aiutarlo come meglio sapeva. Viene la pace, Umberto è di nuovo a casa. In guerra si è guadagnato due Croci, Le idee hanno lievitato piuttosto disordinatamente, ma hanno lievitato; il carattere ha subito modifiche sostanziali, pur se apparentemente quella scuola cruente cui è stato gli ha dato un che di aggressivo, spavaldo. Ritorna a Brera. Adesso i maestri sono Ambrogio Alciati e Tallone, ma il contatto più diretto è con Alciati, artista allora molto apprezzato, abile, che tutto sommato, pur appartenendo ad un mondo del tutto diverso da quello dei giovani a lui affidati, li comprende molto più di quanto essi non immaginino. Sebbene la fronda di un tempo, sotto la spinta di mille eventi concomitanti, sia diventata adesso a Brera una opposizione aperta da parte di alcuni allievi, Alciati non se ne spaventa, non cerca di piegarli: quelli che hanno talento li lascia saggiamente fare secondo l'estro che mostrano. Lilloni, pur con quel temperamento, con quelle avventatezze di giudizio, con quello spirito antiaccademico che ha, trova Alciati indulgente. D'altra parte, il giovane, se ha certe felici intuizioni, certi tratti che lasciano scorgere in lui, oltre alle doti naturali, un che di personale, nel complesso di quanto viene creando si tiene in una linea, ben accettabile al maestro, di tradizione lombarda. In fondo è più rivoluzionario a parole  che con i fatti.
I primi riconoscimenti in ambito scolastico vennero presto: Lilloni vinse nel '21 il premio costituito dalla vedova Mazzola, assegnatogli dall'Accademia di Brera; l'anno seguente il primo premio alle Olimpiadi artistiche di Roma; infine quel Pensionato Hayez, che era uno dei più ambiti da chi si licenziava. Il nudo sdraiato femminile che gli procurò l'affermazione risente sì dell'insegnamento di Alciati e del gusto di quel tempo ma è pure nutrito di una sensuale pasta pittorica, ha un piglio robusto, accenti in cui si avverte un temperamento autonomo. Va notato, e questo indica un intuito felice, che da un pezzo Lilloni aveva cominciato a guardare Gola. Gola che, malgrado avesse ottenuto quasi sul tramonto della sua vita dei buoni riconoscimenti, era pur sempre considerato, specie in certi ambienti artistici, una sorta di geniale dilettante; forse anche perchè era un signore facoltoso, apparteneva all'aristocrazia, si teneva in disparte. E tutto ciò, secondo un giudizio deteriormente romantico, portava taluni a classificare il maestro «non professionista», come se in arte il professionismo contasse qualcosa.
La pittura di Lilloni evolve, all'uscita di Brera, rapidamente. Siamo ai tempi cosiddetti del Novecento, entrino nel vivo di quel periodo fra le due guerre mondiali in cui si formò una schiera di artisti, si fecero diverse esperienze importanti. È un periodo complesso, un periodo non sempre ben giudicato, accusato spesso di provincialismo, dato sovente per negativo. Di solito è il legame politico che si stabilì tra fascismo e Novecento, o, meglio, tra fascismo e una parte di Novecento, ad influenzare il giudizio di parecchi; non essendo oggi ancora sopite le passioni.
Ma guardando obbiettivamente i fatti, e anche tenendo d'occhio quel che avveniva nel resto dell'Europa artistica, -senza però lasciarsi prendere la mano da eccessive e non giustificate ammirazioni-, non si può dare ragione a chi condanna in blocco. In realtà, anche se gli eventi politici determinarono, durante il ventennio tra il 1920 e il 1940, la formazione in Italia di un arte ufficiale ed accademica, se vi fu un certo isolamento italiano dalla sfera culturale europea, se si avanzano assurde vanterie di una ricuperata supremazia artistica, ciò non di meno il bilancio di quegli anni è in definitiva più attivo che passivo.
Se si guarda serenamente a quel periodo, si deve riconoscere che se le interferenze politiche, man mano divenute più forti, favorirono una rete di interessi  materiali e morali che portarono molti artisti nell'ambito di una estetica ufficiale falsa, caduca e gonfia di retorica, altri artisti a questo reagirono e proseguirono la propria strada come a loro talentava, così che gli sforzi di politicanti per ridurre l'arte italiana a un minimo comun denominatore di «regime» fallirono. Va inoltre notato come, alcuni tra gli artisti che più ufficialmente furono favoriti avessero forti qualità, qualità che ancora oggi li pongono in una «élite». Dunque, se molte cattive statue, molti cattivi quadri, molte brutte architetture furono creati in quegli anni, accanto ad essi nacque anche un certo numero di buone sculture, buoni quadri, buone architetture.
Del resto che anche oggi si condanni quel perioda da parte di tanti critici «à la page» è per lo meno strano. Se ieri in nome di un ricongiungimento alle più auree tradizioni italiane si faceva del manierismo e dell'accademia, oggi si fa altrettanto in nome di un preteso linguaggio europeo, in nome di una pretesa cultura internazionale. E allo stesso modo di ieri, oggi sotto l'occhio benevolo di democratici ministri un gruppo di «esteti» ufficiali detta legge attraverso l'organizzazione delle grandi mostre d'arte, detta legge con l'assegnazione dei premi più importanti. Quegli artisti che ai loro discutibili concetti non si conformano sono ignorati. Irremissibilmente. Ed è curioso che l'intransigenza di questi nostri attuali melanconici carabinieri che predicano libertà rivoluzionaria sia molto maggiore di quella degli ostinati sostenitori di un arte nazionalistica che imperavano ieri. Vero è che talvolta si tratta delle medesime persone che hanno mutato idea, ma si vede che, cambiando, lo zelo è aumentato. In verità, oltre al preponderante Novecento, nelle maggiori mostre nel periodo fra le due guerre le correnti o le personalità che vennero mano a mano rivelandosi trovarono una certa ospitalità sia pur spesso concessa a denti stretti. Inoltre, talune esperienze straniere da artisti italiani assimilate in maniera più o meno originale, come per esempio, il così detto astrattismo, tramite principale il Futurismo della seconda fase, trovarono accoglimento. Oggi, viceversa, sia pure esplicitamente, anzi con molte dichiarazioni di possibilità di coesistenza che un poco rammentano quelle principali governanti orientali e occidentali in politica, oggi che la nostra trionfante avanguardia di elaboratori di formule vecchie da almeno un trentennio si divide laudi e premi con una regolarità molto ma molto più impressionante del Novecento di un tempo, a coloro che delle folte schiere «rivoluzionarie»  non fanno parte si lascia molto meno di allora: proprio quel tanto che per mille motivi di opportunità non si può fare a meno dio lasciare.
L'adesione di Lilloni al Novecento è, tutto sommato,una fase di reazione polemica all'inizio realistico e legato ad una stanca tradizione impressionistica lombarda. Già l'accostarsi a Gola indica in lui un desiderio di nutrire con succhi non estenuati la sua arte, ma non poteva bastargli. Eccolo quindi sedotto (anche per quel suo temperamento pugnace, di quel complesso di sentimenti ardenti e sinceri cui ha obbedito altresì nella vita quotidiana e nella manifestazione dei propri convincimenti politici) da una retorica del monumentale, del primitivo, della forza, dell'antigrazioso, che è insita nel Novecento, movimento eterogeneo, senza una vera base teorica, che aduna personalità diverse, ma che tuttavia alcuni lineamenti distintivi, i quali per alcun tempo concorrono alla formazione di qualche accenno linguistico comune. Nero e terroso, talvolta; con una certa ruvida fermezza, una plastica risentita, una materia asciutta, un fare largo e sintetico, Lilloni si prova a guardare gli antichi modelli che il Novecento ripropone. Pure, suo malgrado, forse, traluce ben presto dalle sue figure una dolcezza di sentimento, magari qualche volta, un curioso e malizioso umore, che sono in dissidio con la severità del resto della pittura e svelano la natura dell'artista e il suo mondo poetico sono ben altro. Presto, appunto per la sua sincerità, Lilloni incomincia a sentire il disagio degli schemi adottati, incomincia a liberarsene, a puntare su un atmosfera meno torbida, più serena e congeniale a lui. Dopo il Premio Principe Umberto, ottenuto nel 1927, il processo va affrettandosi, in certi paesaggi di piccole dimensioni che hanno il sapore impressionista e romantico, in certe sue grandi figure ammorbidite, piuttosto sommarie e insieme accuratamente levigate, la vera personalità del pittore, pur nelle componenti non ancora equilibrate e depurate di simile pittura,  ma non prive di una particolare seduzione di tono e di colore, incomincia a farsi strada. Lilloni, per sua natura fantastico, romantico e semplice è fondamentalmente antinaturalistico.
Come nella vita le contingenze lo portano col suo spirito bonario e generoso, la sua esuberanza fisica e il suo bisogno di agire, a reazioni impreviste, a mascherarsi, diciamo così da «duro», così in arte la ribellione al primo insegnamento naturalistico e tardo impressionista ricevuto lo conduce verso l'anti naturalismo e la retorica novecentista. Ma si avvede dopo qualche anno che non fanno per lui, che il Novecento è per lui troppo greve, incubo non sogno.
1926 Umberto e Maria Luigia
Allora, ripiega ancora verso la realtà e tuttavia appena ne è a contatto si avvede di non poterla accettare. A questo momento appartengono appunto, mii pare, i dipinti posteriori al '27 di cui parlavo sopra. Fra breve, Lilloni scoprirà un'altra strada che lo porterà verso la sua meta ideale, una strada che poi farà a passo a passo fino ad oggi e che corre ai confini tra la realtà e il sogno con un tracciato sinuoso, quasi un sentiero in un bosco, ma un bosco senza troppi intrichi di rovi e di spini, non buio, non drammatico, ma deliziosamente fresco e gentile e frusciante al venticello che appena ne muove le foglie.
Quella nuova strada che Lilloni andava cercando, egli la trovò nel Chiarismo. Questa parola «Chiarismo» credo si debba a Piovene, il quale per primo chiamò «chiarista» la pittura a fondo chiaro che un gruppetto di pittori milanesi incominciò a fare verso il 1930.
I chiaristi erano precisamente Lilloni, Del Bon, De Amicis, De Rocchi. Ma non si può tuttavia parlare di Chiarismo senza prima rammentare un meridionale di gran talento venuto dal sud a Torino e poi piombato a Milano: Eduardo Persico. Persico fu un anticonformista per eccellenza, ebbe uno spirito acutamente sensibile, apertamente europeistico e un gusto, in pittura, formatosi principalmente sugli impressionisti, i postimpressionisti, i «fauves». Studioso di problemi architettonici, in lui più che l'impulso creativo predominava il senso critico. Aveva inoltre fervore entusiastico e disinteressato, molta umanità, personalità di trascinatore. Non si immagini niente di tribunizio, o peggio, da primo attore. Era piuttosto prontamente intuitivo, e insieme ragionatore, ragionatore ben fornito di logica, cultura, spregiudicatezza. Quando giunse a Milano accompagnando la «Mostra dei Sei» (i sei pittori torinesi che reagivano a Novecento: Levi, Chessa, Jessie Boswell, Galante, Menzio e Paulucci) comprese che Milano gli offriva un campo di azione più vasto e poco dopo si stabiliva nella metropoli lombarda.
Incominciò con una rivistina «Belvedere» che polarizzò l'attenzione di molti giovani artisti: letterati, pittori, scrittori, architetti; Personalità diverse, molte in formazione, ma tutte animate da uno spirito di reazione allo scadimento della tradizione impressionistica lombarda e all'accademia novecentista che si dilatava sempre più. Il quartier generale di persico e di coloro che si adunavano intorno a lui fu un bar in piazza Beccaria: il «Mocador». In quel bar passarono Ghiringhelli, Del Bon, Bogliardi, De Amicis, Soldati, Garbari, Birolli, Sassu, Manzù, De Rocchi altri ancora e, naturalmente Lilloni, «...qui, -scriverà poco più tardi Persico stesso,- si è iniziata, dopo il "bel vedere", la prima reazione concreta e dignitosa alla decadenza della pittura lombarda ...». «In questo Mocador, dove al tocco le sartine vanno a bere il caffè, e al sera i commessi viaggiatori discutono di sport, sono passati tutti i giovani lombardi non volgari ... È qui che Umberto Lilloni ci ha parlato di Gola e della Milano di suo padre»... Lilloni sorprendeva sovente Persico. Umberto, tutto sommato, scuole ne aveva bazzicate poche, pure, a differenza di altri amici e colleghi, aveva una cultura letteraria che il critico non si sarebbe aspettato e che, come tutta la cultura degli autodidatti (sotto questo aspetto Lilloni è in definitiva un autodidatta) era stata condizionata non solo dalle sue inclinazioni e dalla sua naturale curiosità, ma anche dai contatti avuti, dalle idee politiche e così via. Dostoiewski, per esempio, Lilloni aveva incominciato a leggerlo giovanetto, quando era ancora all'«Umanitaria»: per via del socialismo. Allora aveva capito poco, ma continuando senza arrendersi alle difficoltà che il grande scrittore aveva per lui, ragazzo e impreparato, aveva finito col penetrarlo e innamorarsene. Così altri: stranieri e italiani. A Lilloni, dei nostri, fin da ragazzo  era familiare un lombardo schietto: De Marchi, e in questo caso per una curiosa vicenda di vita, addirittura familiare. Una sartina di cui De Marchi si era innamorato si confidava con la signora Lilloni, così quel nome De Marchi, penetrato per via tanto insolita nella mente di Umberto giovanissimo, l'aveva portato a ricercare l'opera dello scrittore. Anche le guerre d'Africa hanno appassionato Lilloni, che per un bel pezzo ha avuto una discreta raccolta di libri, avidamente letti, sull'argomento. Ora il giovane pittore col suo bagaglio di letture eterogenee, ma ampie e assimilate, non poteva mancare di colpire Persico.
Umberto con Maria Luigia e i figli Luciano e Adele
Inoltre, nella compagnia egli rappresentava, per i suoi contatti col Gola e attraverso la sua autenticità di milanese vissuto si può dir sempre nelle vie di Milano e in un momento in cui la Milano di un tempo cedeva il passo a quella attuale, qualcosa di particolare; rappresentava, tutto sommato, un'eco di Scapigliatura, che il suo modo di fare, tinto di spavalderia, romanticismo, entusiasmo, rendeva persistente e vivo.
Naturalmente, il Chiarismo non si elaborò solo nelle discussioni al caffè con Persico, oppure esplorando soprattutto attraverso le riproduzioni a colori, che allora cominciavano a girare abbastanza, quel che si era fatto in Francia e altrove negli ultimi cinquant'anni, o, ancora,  ricercando nei pittori del trecento lombardo, e in Foppa, Luini, Piccio, Ranzoni le componenti di una grande tradizione autoctona e le costanti di una visione e di una luce.
Il Chiarismo Diventò un fatto concreto -e non poteva essere altrimenti- attraverso ciò che venne creato negli studi di Lilloni, Birolli, Del Bon, De Amicis, De Rocchi, Spilimbergo: gli alfieri di questa reazione milanese al novecentismo. Se il bar «Mokador» fu il quartier generale dei «rivoltosi», il teatro di battaglia fu via Solferino, amabile, vecchiotta strada umbertina, dove i giovani artisti avevano gli studi sotto i tetti milanesi, segnata con il numero undici. Lassù, in alcuni dei tanti abbaini del grande stabile i chiaristi dipinsero moltissimi dei loro quadri. In quegli anni si può dire vivessero in una specie di Quartier Latino in diciottesimo, perchè tanti altri abbaini simili ai loro ospitavano artisti di ogni specie e qualità, e artigiani, operai, sartine, modelle: una vera repubblica bohèmienne che costituiva il cruccio del padrone di casa, sia perché pagava di rado sia perchè scandalizzava la gente dei piani di sotto e delle case accanto. La «Scapigliatura», vissuta poco distante da via Solferino, nel casone giallo all'angolo di via San Marco e via Montebello, che allora si specchiava pittoresco nelle acque della conca di San Marco oggi coperte d'asfalto, sembrava essere rinata là, a tre passi, sotto quei tetti.
Lilloni nel palazzone rosso di via Solferino ebbe lo studio fino al 1938. Il proprietario, che aveva, lentamente a furia di sfratti, distrutta la repubblica artistica, diceva di lui: «Quel lì almeno mi paga un mes sì e un mes no». Perciò gli disse di andarsene soltanto quando il repulisti fu quasi terminato. E in definitiva Lilloni abbandonò quello studio con dispiacere ma anche con piacere: bisognava fare centosedici gradini. E lui, a quarant'anni non era più sottile come Falstaff paggio del duca di Norfolk, e i clienti dicevano spesso di non sentirsela d'arrampicarsi lassù. L'ascensore aveva ormai disabituato la gente che compra quadri, alle scale troppo lunghe.
Ma credo Lilloni ricorderà sempre quello studio, dove compì la sua più importante esperienza artistica e dove trovò la sua via, una via che nell'isola chiarista è stata esplorata da lui solo. La pittura di Lilloni si definisce in seno alla corrente a cui appartiene non solo per le particolari e inconfondibili caratteristiche dello stile espressivo, ma anche per il mondo poetico dell'artista. Talvolta gli hanno conferito una specie di «cuginanza» con Del Bon, amico suo indivisibile, una delle persone che egli ha più amato e uno degli artisti che ha maggiormente stimato.
Lilloni trasloca
Ma fra i due c'è una netta differenziazione, come inclinazione, gusti, maniera di esprimersi, natura pittorica e sentimenti. Anche la fonte lombarda, che pure rappresenta tra loro un comune denominatore, è da ciascuno dei due artisti intesa diversamente. Perciò le affinità, oltre quella di muoversi su un certo determinato terreno di esperienze e di partecipare a una stessa sfera culturale, non vanno.
Lo svolgimento di Lilloni, quando attraverso il chiarismo si allontana dal §Novecento e dai suoi schemi fu di sciogliersi d'ogni retorica, d'ogni magniloquenza. Ritorno a modi semplici e scoperti, puro indugiarsi a contemplare la natura, osservando con interesse non solo la fronzuta grande chioma di un albero, poniamo, ma anche il semplice filo d'erba che si agita pianamente  al soffio leggerissimo dell'aria appena mossa. Donde, non solo il delinearsi della massa, ma anche del particolare, reso sovente, soprattutto nei suoi boschi, con fitte piccole pennellate, messe giù d'istinto, «di prima», epperò con amore e accuratezza. Sarebbe diventato un calligrafo giapponesizzante, un pedante annotatore di piccolissime cose, con un modo espressivo che include si fatte minuzie, se la sua schiettezza, il suo candore, la sua capacità di sognare romanticamente a occhi aperti e, infine, quella sua fantasia sempre pronta, come abbiamo visto, anche nella vita, a lasciarsi trasportare come acquoline dal vento verso l'alto, negli spazi del cielo, non lo avessero preservato da ogni contagio cronistico e banalmente descrittivo, non gli avessero mantenuto il dono della metamorfosi poetica d'ogni cosa.
Umberto Lilloni al lavoro
Così da quest'uomo grande e grosso, oggi pacifico e bonario, ieri vivace e un poco «bullo», ecco che vien fuori una pittura gentile, limpida e leggera, dalla fragranza sottile ma persistente e pura, fanciullescamente fiabesca. È un contrasto che a prima vista colpisce, ma poi, a ragion veduta, appare meno forte di quella che appare subito. In fondo, è una conseguenza logica: Lilloni, il suo candore di ragazzo, quello che l'ha spinto a questa o quell'avventura, non l'ha perduto mai: quali che siano stati gli eventi a cui ha partecipato,i contatti avuti, le esperienze vissute nella vita e nell'arte. E adesso, libero da soprastrutture, trovato finalmente il proprio autentico modo di esprimersi, vien fuori tutto, esplicito. Si guarda intorno e contempla il mondo con occhi acuti e freschi, quelli di quando fanciullo gironzolava per le vie con i monelli del quartiere, quelli di quando marinava la scuola andando fuori porta tra il verde e i canali e dei fossi che solcano a mille e mille la grassa pianura lombarda. Allora, quella placida bellezza lo incantava senza che ne sapesse il perchè, oggi egli è conscio di questo perchè, ma non si incanta meno. Nè il sapere analizzare lo spettacolo della natura la purezza e l'intensità dell'emozione. Nel suo colloquio con la natura le sue facoltà di abbandonarsi e sognare, e in virtù di ciò, trascendere dalla realtà, si acuiscono man mano che il tempo passa. Non è soltanto il lavoro assiduo che esercita l'occhio e la mano, quello che porta Lilloni fra il '30 e il '40 allo sviluppo pieno della propria tecnica e della propria personalità pittorica, è anche un altro fatto, che è del resto riscontrabile in altri artisti: il formarsi nella sua memoria di un vero e proprio repertorio di forme e di colori. Sono immagini di cose viste e amate che si depositano nel suo io e qui si depurano e si trasformano. Quando egli guarda, l'immagine che egli ha davanti agli occhi rievoca dal fondo della mente i ricordi in essa rinchiusi ed essenzializzati come plastica e sentimento; questi ricordi intervengono nell'atto creativo. Così, nella realtà che contempla, egli trova e costruisce, o meglio poetizza, nel senso che i greci davano al termine alla parola «poesia», una sua realtà, proveniente sì dal mondo esteriore, ma fortemente interiorizzata, resa fatto pittorico largamente e emotivamente interpretativo delle apparenze sensibili che hanno stimolato l'artista a creare.
Questo carattere tendenzialmente memorativo, questo intervenire costante delle «sue» forze e dei «suoi» colori nella elaborazione del dipinto, non è, l'ho già detto, segno distintivo del solo Lilloni, anzi, in certo senso tutti gli artisti veri hanno un proprio repertorio classico in mente; ma in Lilloni mi pare che il fenomeno sia particolarmente accentuato e, in ogni modo, nettamente personale come gusto di grafia, tocco impaginazione, colore. I verdi, i gialli, i rossi, gli azzurri della sua tavolozza, così leggeri, tersi, trillanti e aerei vengono appunto dalla sua memoria decantatrice. Sono i velati colori della pianura lombarda in primavera, assorbiti all'epoca della fanciullezza e serbatisi intatti nelle loro diafane note negli occhi di quest'uomo ormai anziano eppure fanciullo. Così le forme degli alberi che popolano i suoi boschi, così le case dei suoi paesaggi cittadini che rievocano la Milano d'un tempo, romantica e amabile (un altro non avrebbe forse potuto dipingere la serie «Immagini di Milano» perchè qui è il ricordo che affiora suggestivo: il materiale documentario di cui Lilloni si è servito come spunto essendo lettera morta quando affetti e memoria non lo sostengono), così anche i suoi paesaggi della Riviera o di Venezia o della Scandinavia. Dove egli vada, quale visione si offra a lui e lo ispiri, nell'evoluzione egli inserisce se stesso, con il suo forse non troppo vasto ma sempre seducente repertorio plastico. E tuttavia va riconosciuto che le fitte pagine del libro della sua pittura non riescono monotone. Questo perchè egli non tende mai ad imporsi totalmente al suo tema, non nutre l'ambizione di travolgerlo, di annullarlo, non si scontra con esso: si incontra.
Egli ama e perciò non distrugge; piuttosto arricchisce di sè quello che ama, finchè lui si riflette nella sua creatura e questa in lui. Da ciò molta varietà pur nella unità dello stile espressivo e del sentimento. Il procedimento, spontaneo, non inquinato da cerebralismi, da letteratura, è evidente anche nelle composizioni. Qui la figura si mescola al paesaggio, alla natura morta, o a tutt'e due insieme, in modo integrale. Le sue donne nude, dalle carni lisce e pallide, dalle forme snelle e semplici dei bei vasi, incorrotte e pure leggiadramente e vagamente sensuali, carne e non carne, si inseriscono nella scena con una naturalezza armonica: che non è solo frutto di abilità compositiva, di buon calcolo degli spazi, di senso vivo dei ritmi, ma anche di una equivalenza tra plastica e sentimento. Quelle donne sono le vere ninfe di quei boschi primaverilmente arcadici nei quali Lilloni fa vivere in una luce diffusa e appena velata grandi alberi e arbusti tutti foglioline e germogli, coprendo le tela di segni e tocchi leggeri e minuti che  nella loro grazia sommessa e precisa hanno un che di orientale. Quelle donne sono le naiadi di quelle acque chiare e fruscianti che egli evoca con un gioco sottile di colori trasparenti. E talvolta sono i personaggi del suo racconto fiabesco, così come talaltra lo sono viceversa le case, o gli alberi piumati, o le barchette, o le chiesine, chè la vena narrativa di Lilloni investe tutte le apparenze sensibili non solo la figura umana. Pittura felice, questa di Lilloni, dalla voce sommessa ed aggraziata, elegantemente aerea, tutta sottigliezze, con un che di fresco che rammenta l'erba al mattino vivificata dalla rugiada. E in questi nostri tempi tanto aspri, di disperate negazioni, di perentorie e spesso gratuite affermazioni, di ermetici discorsi, sovente fatti di parole sonore sì ma prive di senso, o di furbe «fumisterie», o di accessi di ogni genere, è pittura confortante. Perchè indica una schiettezza senza timori, un vero ordine mentale, una sensibilità raffinata, una autentica capacità di creazione poetica; insomma, non solo una genuina personalità artistica ma anche una moralità assai rara.



sabato 6 febbraio 2016

Alessandro Di Vicino Gaudio

Alessandro Di Vicino Gaudio è un giovane tra tanti giovani, con un'idea originale che a prima vista lo colloca a cavallo di due innovatori dell'arte moderna e contemporanea: Bansky e Nam June Paik.
Fluxus a cui si ascrive l'opera di Paik era interessato all'ibridazione tra musica e immagine. Una cosa che negli anni sessanta era la logica conseguenza della musica contemporanea e della diffusione della televisione e la magia delle immagini in movimento che essa portava nelle case della gente. Qualcosa che lo spirito libero degli artisti si sentivano in dovere di indagare per trovare nuove forme e nuovi strumenti d'espressione. 
Oggi Di Vicino Gaudio riprende questa sperimentazione ibridando la grafica veloce del "graffito" alla narrazione tecnologica del video. Non solo video artista e non solo graffitaro quindi. 

Alessandro esprime idee e pensieri da leggere nello sviluppo del'immagine come naturale conseguenza del titolo dell'opera. Un arte narrativa, impegnata nel sociale, che si legge a colpo d'occhio come una frase lapidaria, cosa tipica dei graffiti, e con più attenzione con il trascorrere del tempo del video.
Non solo. Alcune opere fanno parte di un discorso più lungo ed articolato. Piccoli cicli di opere che diventano una breve narrazione insomma: Di Vicino Gaudio non si ferma ad una singola opera ma prosegue dialogando nella sua sequenza. Un articolato discorso che riprende i suoi temi e li sviluppa in veste figurale.







 La velocità d'esecuzione non deve far comunque pensare ad una superficialità del pensiero: tutt'altro. Un pensiero che si sviluppa rimbalzando dalle pagine dei giornali e attraversando i vari mezzi di comunicazione. Esprime così un ideale che forgia e struttura le giovani menti dei suoi coetanei, proiettate nel futuro. Ogni opera di Di Vicino Gaudio affronta un aspetto della vita odierna, una paura, un rimpianto o una speranza. Tutto alla velocità del video o dei social network: una foto scattata ora e due secondi dopo condivisa e patrimonio dell'umanità; un pensiero espresso ora e condiviso subito, che scorre in mille rivoli di una diffusione virale; un immagine creata e subito diffusa in forme impensabili solo un decennio fa.
La velocità d'esecuzione è quindi un tratto fondamentale del fare arte del giovane artista toscano.
I primi esordi lo vedono impegnato a fare gavetta in esecuzioni in strada. Quelle che una volta erano chiamate estemporanee e oggi si chiamano Live painting sono nella sua naturale vocazione di confronto con gli artisti di strada. Infatti l'anno scorso partecipa a Roma ad una manifestazione artistica di "sticker e poster art", non utilizzando espressamente questi strumenti, ma optando per l'esecuzione di un dipinto.
La sua carriera quindi prosegue con la partecipazione a manifestazioni di vario genere in vari luoghi della Toscana e piccole mostre e rassegne. Fino al trasferimento a Milano dove trova alcune gallerie che iniziano ad interessarsi dei suoi lavori. Ora la presentazione alla Galleria Schubert sancisce un nuovo passo e una nuova occasione per farsi notare.
Un video sintetizza questa esperienza


La mostra si è chiusa con successo di critica e pubblico, tanto che prossimamente ...
Seguiteci e saprete.