Umberto Lilloni ha sessantacinque anni. Appartiene dunque a quella schiera di artisti che si formarono nel ventennio successivo alla prima guerra mondiale. Quando questa scoppiò, Lilloni, ch'era giovinetto - è nato nel 1898 - incominciava a frequentare Brera. L'iscrizione all'Accademia milanese di Belle Arti, dopo aver frequentato i corsi della Scuola Professionale della Umanitaria, dai quali era uscito esperto ebanista, non andava a genio a suo padre. Papà Lilloni, un mantovano emigrato a Milano nel 1877, era un uomo pratico e autoritario. Artigiano abile e lavoratore tenace, a furia di sgobbare, era riuscito a mettere su una fabbrichetta di mobili con diversi operai e a far prosperare la sua piccola industria. In famiglia, una famiglia che poteva dirsi agiata e che viveva senza mancar di nulla ma tuttavia modestamente, con quello spirito di onesta parsimonia, che fu caratteristico della borghesia milanese e italiana prima che le conseguenze economiche di due guerre non ne mutassero totalmente la mentalità risparmiatrice e ne accrescessero continuamente i bisogni, in famiglia, si diceva, egli era patriarca. Patriarca nell'amore geloso - è però pudicamente celato sotto una scorza di ruvidezza - per i suoi, che voleva sentire tutti stretti a lui; patriarca nell'esigere rispetto assoluto di quella «patria potestas» che egli esercitava con intransigenza, senza ammettere che le sue decisioni fossero minimamente discusse. Umberto, che accanto alla tenacia, alla forza morale, all'onestà ereditate da lui, aveva una fantasia prontamente eccitabile, una sensibilità fortemente ricettiva, un temperamento romantico, era destinato ben presto a scontrarsi col padre. L'urto si delineò quando era ancora un ragazzo. I Lilloni abitarono, fino a quando Umberto ebbe una decina d'anni, a Porta Tosa,
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Porta Tosa |
come allora si chiamava popolarescamente a Milano Porta Vittoria. Poi si trasferirono in centro, in via Pasquirolo. Le bombe dell'ultima guerra e la sciagurata edilizia camuffata da architettura dei casoni che la sfrenata speculazione sulle aree del centro ha assurdamente poi fatto sorgere nel cuore della città, Oggi al suo posto è una specie di passaggio coperto, che cerca di nascondere la sua miseria architettonica col solito fasto di marmi e cristalli, ma allora c'erano lì delle antiche case di quel ricco colore ocra gialla, tipico colore della Milano ottocentesca, e botteghe dove accanto al «prestinèe» c'era l'antiquario e al caffè raccolto e vecchiotto dove si adunavano anziani professionisti, succedeva il negozio di strumenti e musiche. Un nome famoso nella cultura italiana, Sonzogno, dava alla strada una corona di nobiltà: da via Pasquirolo arrivavano in tutti gli angoli d'Italia le dispense dei classici illustrati e gli opuscoli della
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via Pasquirolo e via San Zeno |
Biblioteca Universale di cultura, i libri per le scuole e gli spartiti d'opera stampati da Sonzogno. E gli uffici e la tipografia della vecchia e benemerita casa editrice erano la meta dei letterati ed artisti. Per via Pasquirolo potevi vedere, poniamo, Eugenio Camenrini, canuto e assorto, o Mascagni con i capelli buttati all'indietro. Trapiantato in quella via, Umberto Lilloni, fanciullo, cominciò ad avere i primi contatti con il mondo intellettuale ed artistico. Contatti naturalmente da ragazzetto, fatti di nonnulla, ma che gli stimolarono la fantasia. Cominciò a sognare di essere ingegnere navale (e per un «terragnolo» è uno sforzo di immaginazione notevole). Lo disse in casa, ma il padre lo guardò brusco: che razza di idea era quella! Umberto non si diede per vinto: forse avrebbe persuaso il suo patriarca con i fatti. Era un discolo che a scuola andava svogliato e profittava pochissimo; diventò studioso, cercò di farsi amico dei libri. Fu però vano sforzo: invece di mandarlo al ginnasio, il padre lo iscrisse alle scuole professionali: doveva essere artigiano, l'azienda familiare aveva bisogno di un buon ebanista per adesso, poi di un capo che la mandasse avanti; non di ingegneri: nè navali nè d'altro genere. La Scuola dell'Umanitaria mise il giovanetto d'innanzi a un mondo nuovo: il disegno, disegno geometrico, disegno di ornato, disegno di figura. Era abbastanza per risvegliare la vera vocazione di Lilloni: l'arte. Contemporaneamente, il contatto con quei ragazzi prevalentemente di famiglia operaia lo portò verso il socialismo. Socialismo, come allora era inteso da tanti, venato di umanitarismo, con molti accenti romantici, molta eloquenza, tribunizia, che certo non potevano mancare di esercitare il loro fascino su un giovanetto il quale, sebbene appartenesse ad una famiglia borghese, era cresciuto e cresceva tuttavia a contatto con gli operai del laboratorio paterno, e con i coetanei delle classi meno abbienti. Agiva inoltre sul temperamento vivace, aperto e generoso, a casa stretto ad una obbedienza rigorosa dalla disciplina fermamente imposta dal padre, la seduzione di una dottrina allora definita sovversiva dai cosiddetti ben pensanti, e quelle parole avvenire, umanità, proletariato, ribellione, lotta di classe avevano per il giovanissimo Lilloni, certo senza che lui se ne avvedesse, anche un senso molto diverso da ciò che veramente significavano in politica, un senso tutt'affatto personale, di opposizione inconscia al «regime» familiare. Oggi diremmo che quest'ultimo aveva generato in lui un complesso di costrizione, che lo portava, fuori dall'ambito domestico a reazioni del genere. quando nel 1914 scoppiarono le agitazioni operaie della famosa «settimana rossa», Lilloni, la cui vivacità naturale si traduceva anche in una inclinazione all'azione violenta, alla temerarietà, a un certo, diciamolo pure, con una parola alla moda, «bullismo», partecipò ai moti coi socialisti dell'Umanitaria. Venne arrestato e lo portarono a San Vittore. Ritornato in famiglia qualche giorno appresso, i rapporti col padre furono molto tesi e ancora più aspra si fece la situazione quando nel 1915 si iscrisse all'accademia di Brera. Questo figlio socialista che voleva diventare pittore era una vera spina nel cuore del signor Lilloni, che non rinunziò tuttavia alla maniera forte. Umberto doveva lavorare in laboratorio, non c'erano scuse. Ma il giovanotto, che non era meno duro e tenace del padre, non si lasciò smontare per questo. Si dedicò all'arte in tutti i ritagli di tempo libero: si alzava la mattina prestissimo per andare fuori a dipingere, scappava a
Brera appena poteva, disegnava di nascosto al lume di candela; in quegli anni avrà dormito si e no quattro ore per notte. Una continua tensione, un continuo affannarsi, tra il lavoro dell'azienda paterna e quello artistico. Per giunta c'erano anche le complicazioni politiche: la guerra europea era scoppiata, l'Italia si dibatteva tra intervento e neutralismo. Lilloni era corridoniani, cioè apparteneva alla corrente del sindacalismo socialista, favorevole alla guerra a fianco della Francia, dell'Inghilterra e della Russia.
Perciò andava alle manifestazioni per l'intervento, che spesso finivano a botte con i neutralisti, quando non era con la polizia che sopraggiungeva a sciogliere comizi e cortei. Tuttavia, gli studi artistici, continuavano con profitto.
A Brera i primi insegnanti del giovanetto furono Bignami e Rapetti. Il primo era un romantico «scapigliato» lombardo, che col pseudonimo di «Vespa» fu un caricaturista rinomato ai suoi tempi e tuttavia anche un pittore di buona vena; il secondo era un conoscitore esperto del mestiere, artista piuttosto accademico, anche se col correttivo di un cauto parziale echeggiamento cremoniano. Rapetti, nemico delle novità, non aveva vita facile a Brera, dove c'era l'aria di fronda, cui egli si sforzava in vano di reagire, senza comprendere che un nuovo clima si andava determinando. I Futuristi, ancorché molto beffeggiati dal grosso pubblico, che non li capiva e che essi si divertivano a mandare in bestia come le loro clamorose manifestazioni, violentemente discussi anche negli ambienti artistici, avevano rotto il ghiaccio, gettando un grosso sasso nelle acque stagnanti dell'arte italiana del tempo. Un'arte, salvo rari casi, provincializzata se pure non mancante di fermenti, che però non riuscivano a creare una crisi benefica, e dominata da un retorico ed eclettico gusto accademico ufficiale per il quale i Tito, i Bistolfi, i Grosso, i De Carolis, e altri artisti, non privi di doti e di mestiere ma molto inferiori alla fama conquistata e lontani dai vari e nuovi indirizzi che l'arte aveva assunto in Francia, Germania, Austria, Scandinavia, avevano una netta posizione di preminenza.
Il nuovo clima, pur con la scarsezza di informazione che c'era all'ora, veniva avvertito dai giovani, sempre molto sensibili in ciò, ed era naturale che i più vivaci ed aperti di ingegno, che frequentavano sia Brera che altre accademie italiane, avessero un atteggiamento polemico, discutessero su tutti e su tutto senza riguardo.
Quei ragazzi talora azzeccavano, talora sbagliavano, come sempre accade; ma gli errori, in una così grande ansia di revisione dei valori, di ricerca di nuovi punti d'appoggio erano ben perdonabili. Del resto gli errori sono sempre perdonabili a chi agisce con generoso disinteresse, con lo slancio del giovane inesperto che esplora la via artistica, e se stesso. Solo quando l'arrivismo viene a sostituire la nobile ambizione di imporsi facendo esclusivamente leva sul proprio talento, costi quel che costi; solo quando per ignoranza o malafede si vuol gabellare come invenzione la mediocre trovata, e per novità la formula vecchie di anni e furbescamente lucidata a nuovo; solo quando si definisce rivoluzione l'accademismo più vieto, cercando, come sovente avviene oggi, più la via del successo che quella dell'arte: solo allora gli errori dei giovani non sono perdonabili, perchè perdono tutto il loro valore di disinteressata esperienza se pure negativa ma sempre esperienza (non dice il vecchio adagio che sbagliando si impara?) e diventano menzogna, pura e semplice menzogna.
Nella fronda di Brera, Lilloni non si distinse subito. I primi tempi studiò soprattutto per apprendere il mestiere. Poi, dopo la guerra, quando ritornò in Accademia, fu diverso. Sentiva di avere in sè qualcosa ed era ottimista di natura. Se si aggiunge questo agli altri lati del suo carattere e alle condizioni di vita e di ambiente, ci si spiega facilmente come diventasse presto pretenzioso: credeva di essere poco meno di un genio, se non addirittura un genio. Inoltre, come succede in questi casi era un genio piuttosto verboso, sputa sentenze, difficile nei gusti. Essere difficile nei gusti è abbastanza facile quando la conoscenza è insufficiente e le idee sono poco chiare: è un fatto che si può riscontrare spesso anche di questi tempi. Lilloni, allora, incominciò con la rituale rottura con il passato: gli antichi furono assoggettati ad aspre critiche, specie Raffaello, del quale poi in realtà conosceva solo lo Sposalizio della Vergine di Brera e le riproduzioni di alcune opere. Tuttavia, queste idee storte si incaricarono di modificargliele pian piano i fatti. E quando più tardi capitò a Roma durante il primo sospirato viaggio d'istruzione, nella Galleria Barberini, presenti alcuni amici di Brera -che furono soprattutto Del Bon, De Amicis, Bogliardi, De Rocchi, Ghiringhelli, Moro, Lingeri, Carrera, Bertolazzi, Conte, Donini, Barbieri, Carpanetti, Paietta- ci fu l'improvvisa conversione. Innanzi alla «Fornarina», tutt'a un tratto si inginocchia e recita un curioso «mea culpa » in milanese, chiedendo perdono a Raffaello a gran voce, mentre i compagni ridono divertiti e beffardi. È un aneddoto abbastanza indicativo sotto tutti gli aspetti, e rivela, mi pare, anche un altro lato della natura di Lilloni, che poi sarà uno dei fondamenti psicologici della sua arte: un profondo candore, la capacità di abbandonarsi per intero, senza ritegno all'emozione. Ed anche una umiltà, un'onestà a tutta prova, chè, conveniamone, non erano, non sono e non saranno mai molti quelli disposti a riconoscere così bruscamente e ampiamente «coram populo» di avere sbagliato.
Ma ritorniamo alla cronaca ordinata.
Nel 1917, il filo degli studi a Brera si spezza: Lilloni ormai ha diciannove anni, e si arruola per andare a combattere per la guerra che anche lui ha chiesto, come mille e mille altri. Dopo due mesi di frettolosa istruzione, in maggio lo spediscono al fronte. È in fanteria, più tardi sarà ardito. Si batte sul San Marco, a Vertoiba, a quota 144, e in tante altre località ancora nei due anni in cui partecipa alla lotta. La guerra lo riconcilia con il padre: i due che, dal 1915 non si parlavano quasi, si sono riabbracciati il giorno che il ragazzo ha varcato la soglia di casa vestito in grigioverde e adesso quelle cartoline in franchigia con poche parole che Umberto spedisce dal fronte, il padre le aspetta con ansia tuttavia gelosamente celata. La madre -che Lilloni adora- prega Iddio giorno e notte affinchè le salvi quel figlio per il quale ha fatto tanti sacrifici e che, con l'istinto prodigioso delle mamme, ha capito molto più profondamente del marito, cercando di aiutarlo come meglio sapeva. Viene la pace, Umberto è di nuovo a casa. In guerra si è guadagnato due Croci, Le idee hanno lievitato piuttosto disordinatamente, ma hanno lievitato; il carattere ha subito modifiche sostanziali, pur se apparentemente quella scuola cruente cui è stato gli ha dato un che di aggressivo, spavaldo. Ritorna a Brera. Adesso i maestri sono Ambrogio Alciati e Tallone, ma il contatto più diretto è con Alciati, artista allora molto apprezzato, abile, che tutto sommato, pur appartenendo ad un mondo del tutto diverso da quello dei giovani a lui affidati, li comprende molto più di quanto essi non immaginino. Sebbene la fronda di un tempo, sotto la spinta di mille eventi concomitanti, sia diventata adesso a Brera una opposizione aperta da parte di alcuni allievi, Alciati non se ne spaventa, non cerca di piegarli: quelli che hanno talento li lascia saggiamente fare secondo l'estro che mostrano. Lilloni, pur con quel temperamento, con quelle avventatezze di giudizio, con quello spirito antiaccademico che ha, trova Alciati indulgente. D'altra parte, il giovane, se ha certe felici intuizioni, certi tratti che lasciano scorgere in lui, oltre alle doti naturali, un che di personale, nel complesso di quanto viene creando si tiene in una linea, ben accettabile al maestro, di tradizione lombarda. In fondo è più rivoluzionario a parole che con i fatti.
I primi riconoscimenti in ambito scolastico vennero presto: Lilloni vinse nel '21 il premio costituito dalla vedova Mazzola, assegnatogli dall'Accademia di Brera; l'anno seguente il primo premio alle Olimpiadi artistiche di Roma; infine quel Pensionato Hayez, che era uno dei più ambiti da chi si licenziava. Il nudo sdraiato femminile che gli procurò l'affermazione risente sì dell'insegnamento di Alciati e del gusto di quel tempo ma è pure nutrito di una sensuale pasta pittorica, ha un piglio robusto, accenti in cui si avverte un temperamento autonomo. Va notato, e questo indica un intuito felice, che da un pezzo Lilloni aveva cominciato a guardare Gola. Gola che, malgrado avesse ottenuto quasi sul tramonto della sua vita dei buoni riconoscimenti, era pur sempre considerato, specie in certi ambienti artistici, una sorta di geniale dilettante; forse anche perchè era un signore facoltoso, apparteneva all'aristocrazia, si teneva in disparte. E tutto ciò, secondo un giudizio deteriormente romantico, portava taluni a classificare il maestro «non professionista», come se in arte il professionismo contasse qualcosa.
La pittura di Lilloni evolve, all'uscita di Brera, rapidamente. Siamo ai tempi cosiddetti del Novecento, entrino nel vivo di quel periodo fra le due guerre mondiali in cui si formò una schiera di artisti, si fecero diverse esperienze importanti. È un periodo complesso, un periodo non sempre ben giudicato, accusato spesso di provincialismo, dato sovente per negativo. Di solito è il legame politico che si stabilì tra fascismo e Novecento, o, meglio, tra fascismo e una parte di Novecento, ad influenzare il giudizio di parecchi; non essendo oggi ancora sopite le passioni.
Ma guardando obbiettivamente i fatti, e anche tenendo d'occhio quel che avveniva nel resto dell'Europa artistica, -senza però lasciarsi prendere la mano da eccessive e non giustificate ammirazioni-, non si può dare ragione a chi condanna in blocco. In realtà, anche se gli eventi politici determinarono, durante il ventennio tra il 1920 e il 1940, la formazione in Italia di un arte ufficiale ed accademica, se vi fu un certo isolamento italiano dalla sfera culturale europea, se si avanzano assurde vanterie di una ricuperata supremazia artistica, ciò non di meno il bilancio di quegli anni è in definitiva più attivo che passivo.
Se si guarda serenamente a quel periodo, si deve riconoscere che se le interferenze politiche, man mano divenute più forti, favorirono una rete di interessi materiali e morali che portarono molti artisti nell'ambito di una estetica ufficiale falsa, caduca e gonfia di retorica, altri artisti a questo reagirono e proseguirono la propria strada come a loro talentava, così che gli sforzi di politicanti per ridurre l'arte italiana a un minimo comun denominatore di «regime» fallirono. Va inoltre notato come, alcuni tra gli artisti che più ufficialmente furono favoriti avessero forti qualità, qualità che ancora oggi li pongono in una «élite». Dunque, se molte cattive statue, molti cattivi quadri, molte brutte architetture furono creati in quegli anni, accanto ad essi nacque anche un certo numero di buone sculture, buoni quadri, buone architetture.
Del resto che anche oggi si condanni quel perioda da parte di tanti critici «à la page» è per lo meno strano. Se ieri in nome di un ricongiungimento alle più auree tradizioni italiane si faceva del manierismo e dell'accademia, oggi si fa altrettanto in nome di un preteso linguaggio europeo, in nome di una pretesa cultura internazionale. E allo stesso modo di ieri, oggi sotto l'occhio benevolo di democratici ministri un gruppo di «esteti» ufficiali detta legge attraverso l'organizzazione delle grandi mostre d'arte, detta legge con l'assegnazione dei premi più importanti. Quegli artisti che ai loro discutibili concetti non si conformano sono ignorati. Irremissibilmente. Ed è curioso che l'intransigenza di questi nostri attuali melanconici carabinieri che predicano libertà rivoluzionaria sia molto maggiore di quella degli ostinati sostenitori di un arte nazionalistica che imperavano ieri. Vero è che talvolta si tratta delle medesime persone che hanno mutato idea, ma si vede che, cambiando, lo zelo è aumentato. In verità, oltre al preponderante Novecento, nelle maggiori mostre nel periodo fra le due guerre le correnti o le personalità che vennero mano a mano rivelandosi trovarono una certa ospitalità sia pur spesso concessa a denti stretti. Inoltre, talune esperienze straniere da artisti italiani assimilate in maniera più o meno originale, come per esempio, il così detto astrattismo, tramite principale il Futurismo della seconda fase, trovarono accoglimento. Oggi, viceversa, sia pure esplicitamente, anzi con molte dichiarazioni di possibilità di coesistenza che un poco rammentano quelle principali governanti orientali e occidentali in politica, oggi che la nostra trionfante avanguardia di elaboratori di formule vecchie da almeno un trentennio si divide laudi e premi con una regolarità molto ma molto più impressionante del Novecento di un tempo, a coloro che delle folte schiere «rivoluzionarie» non fanno parte si lascia molto meno di allora: proprio quel tanto che per mille motivi di opportunità non si può fare a meno dio lasciare.
L'adesione di Lilloni al Novecento è, tutto sommato,una fase di reazione polemica all'inizio realistico e legato ad una stanca tradizione impressionistica lombarda. Già l'accostarsi a Gola indica in lui un desiderio di nutrire con succhi non estenuati la sua arte, ma non poteva bastargli. Eccolo quindi sedotto (anche per quel suo temperamento pugnace, di quel complesso di sentimenti ardenti e sinceri cui ha obbedito altresì nella vita quotidiana e nella manifestazione dei propri convincimenti politici) da una retorica del monumentale, del primitivo, della forza, dell'antigrazioso, che è insita nel Novecento, movimento eterogeneo, senza una vera base teorica, che aduna personalità diverse, ma che tuttavia alcuni lineamenti distintivi, i quali per alcun tempo concorrono alla formazione di qualche accenno linguistico comune. Nero e terroso, talvolta; con una certa ruvida fermezza, una plastica risentita, una materia asciutta, un fare largo e sintetico, Lilloni si prova a guardare gli antichi modelli che il Novecento ripropone. Pure, suo malgrado, forse, traluce ben presto dalle sue figure una dolcezza di sentimento, magari qualche volta, un curioso e malizioso umore, che sono in dissidio con la severità del resto della pittura e svelano la natura dell'artista e il suo mondo poetico sono ben altro. Presto, appunto per la sua sincerità, Lilloni incomincia a sentire il disagio degli schemi adottati, incomincia a liberarsene, a puntare su un atmosfera meno torbida, più serena e congeniale a lui. Dopo il Premio Principe Umberto, ottenuto nel 1927, il processo va affrettandosi, in certi paesaggi di piccole dimensioni che hanno il sapore impressionista e romantico, in certe sue grandi figure ammorbidite, piuttosto sommarie e insieme accuratamente levigate, la vera personalità del pittore, pur nelle componenti non ancora equilibrate e depurate di simile pittura, ma non prive di una particolare seduzione di tono e di colore, incomincia a farsi strada. Lilloni, per sua natura fantastico, romantico e semplice è fondamentalmente antinaturalistico.
Come nella vita le contingenze lo portano col suo spirito bonario e generoso, la sua esuberanza fisica e il suo bisogno di agire, a reazioni impreviste, a mascherarsi, diciamo così da «duro», così in arte la ribellione al primo insegnamento naturalistico e tardo impressionista ricevuto lo conduce verso l'anti naturalismo e la retorica novecentista. Ma si avvede dopo qualche anno che non fanno per lui, che il Novecento è per lui troppo greve, incubo non sogno.
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1926 Umberto e Maria Luigia |
Allora, ripiega ancora verso la realtà e tuttavia appena ne è a contatto si avvede di non poterla accettare. A questo momento appartengono appunto, mii pare, i dipinti posteriori al '27 di cui parlavo sopra. Fra breve, Lilloni scoprirà un'altra strada che lo porterà verso la sua meta ideale, una strada che poi farà a passo a passo fino ad oggi e che corre ai confini tra la realtà e il sogno con un tracciato sinuoso, quasi un sentiero in un bosco, ma un bosco senza troppi intrichi di rovi e di spini, non buio, non drammatico, ma deliziosamente fresco e gentile e frusciante al venticello che appena ne muove le foglie.
Quella nuova strada che Lilloni andava cercando, egli la trovò nel Chiarismo. Questa parola «Chiarismo» credo si debba a Piovene, il quale per primo chiamò «chiarista» la pittura a fondo chiaro che un gruppetto di pittori milanesi incominciò a fare verso il 1930.
I chiaristi erano precisamente Lilloni, Del Bon, De Amicis, De Rocchi. Ma non si può tuttavia parlare di Chiarismo senza prima rammentare un meridionale di gran talento venuto dal sud a Torino e poi piombato a Milano: Eduardo Persico. Persico fu un anticonformista per eccellenza, ebbe uno spirito acutamente sensibile, apertamente europeistico e un gusto, in pittura, formatosi principalmente sugli impressionisti, i postimpressionisti, i «fauves». Studioso di problemi architettonici, in lui più che l'impulso creativo predominava il senso critico. Aveva inoltre fervore entusiastico e disinteressato, molta umanità, personalità di trascinatore. Non si immagini niente di tribunizio, o peggio, da primo attore. Era piuttosto prontamente intuitivo, e insieme ragionatore, ragionatore ben fornito di logica, cultura, spregiudicatezza. Quando giunse a Milano accompagnando la «Mostra dei Sei» (i sei pittori torinesi che reagivano a Novecento: Levi, Chessa, Jessie Boswell, Galante, Menzio e Paulucci) comprese che Milano gli offriva un campo di azione più vasto e poco dopo si stabiliva nella metropoli lombarda.
Incominciò con una rivistina «Belvedere» che polarizzò l'attenzione di molti giovani artisti: letterati, pittori, scrittori, architetti; Personalità diverse, molte in formazione, ma tutte animate da uno spirito di reazione allo scadimento della tradizione impressionistica lombarda e all'accademia novecentista che si dilatava sempre più. Il quartier generale di persico e di coloro che si adunavano intorno a lui fu un bar in piazza Beccaria: il «Mocador». In quel bar passarono Ghiringhelli, Del Bon, Bogliardi, De Amicis, Soldati, Garbari, Birolli, Sassu, Manzù, De Rocchi altri ancora e, naturalmente Lilloni, «...qui, -scriverà poco più tardi Persico stesso,- si è iniziata, dopo il "bel vedere", la prima reazione concreta e dignitosa alla decadenza della pittura lombarda ...». «In questo Mocador, dove al tocco le sartine vanno a bere il caffè, e al sera i commessi viaggiatori discutono di sport, sono passati tutti i giovani lombardi non volgari ... È qui che Umberto Lilloni ci ha parlato di Gola e della Milano di suo padre»... Lilloni sorprendeva sovente Persico. Umberto, tutto sommato, scuole ne aveva bazzicate poche, pure, a differenza di altri amici e colleghi, aveva una cultura letteraria che il critico non si sarebbe aspettato e che, come tutta la cultura degli autodidatti (sotto questo aspetto Lilloni è in definitiva un autodidatta) era stata condizionata non solo dalle sue inclinazioni e dalla sua naturale curiosità, ma anche dai contatti avuti, dalle idee politiche e così via. Dostoiewski, per esempio, Lilloni aveva incominciato a leggerlo giovanetto, quando era ancora all'«Umanitaria»: per via del socialismo. Allora aveva capito poco, ma continuando senza arrendersi alle difficoltà che il grande scrittore aveva per lui, ragazzo e impreparato, aveva finito col penetrarlo e innamorarsene. Così altri: stranieri e italiani. A Lilloni, dei nostri, fin da ragazzo era familiare un lombardo schietto: De Marchi, e in questo caso per una curiosa vicenda di vita, addirittura familiare. Una sartina di cui De Marchi si era innamorato si confidava con la signora Lilloni, così quel nome De Marchi, penetrato per via tanto insolita nella mente di Umberto giovanissimo, l'aveva portato a ricercare l'opera dello scrittore. Anche le guerre d'Africa hanno appassionato Lilloni, che per un bel pezzo ha avuto una discreta raccolta di libri, avidamente letti, sull'argomento. Ora il giovane pittore col suo bagaglio di letture eterogenee, ma ampie e assimilate, non poteva mancare di colpire Persico.
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Umberto con Maria Luigia e i figli Luciano e Adele |
Inoltre, nella compagnia egli rappresentava, per i suoi contatti col Gola e attraverso la sua autenticità di milanese vissuto si può dir sempre nelle vie di Milano e in un momento in cui la Milano di un tempo cedeva il passo a quella attuale, qualcosa di particolare; rappresentava, tutto sommato, un'eco di Scapigliatura, che il suo modo di fare, tinto di spavalderia, romanticismo, entusiasmo, rendeva persistente e vivo.
Naturalmente, il Chiarismo non si elaborò solo nelle discussioni al caffè con Persico, oppure esplorando soprattutto attraverso le riproduzioni a colori, che allora cominciavano a girare abbastanza, quel che si era fatto in Francia e altrove negli ultimi cinquant'anni, o, ancora, ricercando nei pittori del trecento lombardo, e in Foppa, Luini, Piccio, Ranzoni le componenti di una grande tradizione autoctona e le costanti di una visione e di una luce.
Il Chiarismo Diventò un fatto concreto -e non poteva essere altrimenti- attraverso ciò che venne creato negli studi di Lilloni, Birolli, Del Bon, De Amicis, De Rocchi, Spilimbergo: gli alfieri di questa reazione milanese al novecentismo. Se il bar «Mokador» fu il quartier generale dei «rivoltosi», il teatro di battaglia fu via Solferino, amabile, vecchiotta strada umbertina, dove i giovani artisti avevano gli studi sotto i tetti milanesi, segnata con il numero undici. Lassù, in alcuni dei tanti abbaini del grande stabile i chiaristi dipinsero moltissimi dei loro quadri. In quegli anni si può dire vivessero in una specie di Quartier Latino in diciottesimo, perchè tanti altri abbaini simili ai loro ospitavano artisti di ogni specie e qualità, e artigiani, operai, sartine, modelle: una vera repubblica bohèmienne che costituiva il cruccio del padrone di casa, sia perché pagava di rado sia perchè scandalizzava la gente dei piani di sotto e delle case accanto. La «Scapigliatura», vissuta poco distante da via Solferino, nel casone giallo all'angolo di via San Marco e via Montebello, che allora si specchiava pittoresco nelle acque della conca di San Marco oggi coperte d'asfalto, sembrava essere rinata là, a tre passi, sotto quei tetti.
Lilloni nel palazzone rosso di via Solferino ebbe lo studio fino al 1938. Il proprietario, che aveva, lentamente a furia di sfratti, distrutta la repubblica artistica, diceva di lui: «Quel lì almeno mi paga un mes sì e un mes no». Perciò gli disse di andarsene soltanto quando il repulisti fu quasi terminato. E in definitiva Lilloni abbandonò quello studio con dispiacere ma anche con piacere: bisognava fare centosedici gradini. E lui, a quarant'anni non era più sottile come Falstaff paggio del duca di Norfolk, e i clienti dicevano spesso di non sentirsela d'arrampicarsi lassù. L'ascensore aveva ormai disabituato la gente che compra quadri, alle scale troppo lunghe.
Ma credo Lilloni ricorderà sempre quello studio, dove compì la sua più importante esperienza artistica e dove trovò la sua via, una via che nell'isola chiarista è stata esplorata da lui solo. La pittura di Lilloni si definisce in seno alla corrente a cui appartiene non solo per le particolari e inconfondibili caratteristiche dello stile espressivo, ma anche per il mondo poetico dell'artista. Talvolta gli hanno conferito una specie di «cuginanza» con Del Bon, amico suo indivisibile, una delle persone che egli ha più amato e uno degli artisti che ha maggiormente stimato.
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Lilloni trasloca |
Ma fra i due c'è una netta differenziazione, come inclinazione, gusti, maniera di esprimersi, natura pittorica e sentimenti. Anche la fonte lombarda, che pure rappresenta tra loro un comune denominatore, è da ciascuno dei due artisti intesa diversamente. Perciò le affinità, oltre quella di muoversi su un certo determinato terreno di esperienze e di partecipare a una stessa sfera culturale, non vanno.
Lo svolgimento di Lilloni, quando attraverso il chiarismo si allontana dal §Novecento e dai suoi schemi fu di sciogliersi d'ogni retorica, d'ogni magniloquenza. Ritorno a modi semplici e scoperti, puro indugiarsi a contemplare la natura, osservando con interesse non solo la fronzuta grande chioma di un albero, poniamo, ma anche il semplice filo d'erba che si agita pianamente al soffio leggerissimo dell'aria appena mossa. Donde, non solo il delinearsi della massa, ma anche del particolare, reso sovente, soprattutto nei suoi boschi, con fitte piccole pennellate, messe giù d'istinto, «di prima», epperò con amore e accuratezza. Sarebbe diventato un calligrafo giapponesizzante, un pedante annotatore di piccolissime cose, con un modo espressivo che include si fatte minuzie, se la sua schiettezza, il suo candore, la sua capacità di sognare romanticamente a occhi aperti e, infine, quella sua fantasia sempre pronta, come abbiamo visto, anche nella vita, a lasciarsi trasportare come acquoline dal vento verso l'alto, negli spazi del cielo, non lo avessero preservato da ogni contagio cronistico e banalmente descrittivo, non gli avessero mantenuto il dono della metamorfosi poetica d'ogni cosa.
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Umberto Lilloni al lavoro |
Così da quest'uomo grande e grosso, oggi pacifico e bonario, ieri vivace e un poco «bullo», ecco che vien fuori una pittura gentile, limpida e leggera, dalla fragranza sottile ma persistente e pura, fanciullescamente fiabesca. È un contrasto che a prima vista colpisce, ma poi, a ragion veduta, appare meno forte di quella che appare subito. In fondo, è una conseguenza logica: Lilloni, il suo candore di ragazzo, quello che l'ha spinto a questa o quell'avventura, non l'ha perduto mai: quali che siano stati gli eventi a cui ha partecipato,i contatti avuti, le esperienze vissute nella vita e nell'arte. E adesso, libero da soprastrutture, trovato finalmente il proprio autentico modo di esprimersi, vien fuori tutto, esplicito. Si guarda intorno e contempla il mondo con occhi acuti e freschi, quelli di quando fanciullo gironzolava per le vie con i monelli del quartiere, quelli di quando marinava la scuola andando fuori porta tra il verde e i canali e dei fossi che solcano a mille e mille la grassa pianura lombarda. Allora, quella placida bellezza lo incantava senza che ne sapesse il perchè, oggi egli è conscio di questo perchè, ma non si incanta meno. Nè il sapere analizzare lo spettacolo della natura la purezza e l'intensità dell'emozione. Nel suo colloquio con la natura le sue facoltà di abbandonarsi e sognare, e in virtù di ciò, trascendere dalla realtà, si acuiscono man mano che il tempo passa. Non è soltanto il lavoro assiduo che esercita l'occhio e la mano, quello che porta Lilloni fra il '30 e il '40 allo sviluppo pieno della propria tecnica e della propria personalità pittorica, è anche un altro fatto, che è del resto riscontrabile in altri artisti: il formarsi nella sua memoria di un vero e proprio repertorio di forme e di colori. Sono immagini di cose viste e amate che si depositano nel suo io e qui si depurano e si trasformano. Quando egli guarda, l'immagine che egli ha davanti agli occhi rievoca dal fondo della mente i ricordi in essa rinchiusi ed essenzializzati come plastica e sentimento; questi ricordi intervengono nell'atto creativo. Così, nella realtà che contempla, egli trova e costruisce, o meglio poetizza, nel senso che i greci davano al termine alla parola «poesia», una sua realtà, proveniente sì dal mondo esteriore, ma fortemente interiorizzata, resa fatto pittorico largamente e emotivamente interpretativo delle apparenze sensibili che hanno stimolato l'artista a creare.
Questo carattere tendenzialmente memorativo, questo intervenire costante delle «sue» forze e dei «suoi» colori nella elaborazione del dipinto, non è, l'ho già detto, segno distintivo del solo Lilloni, anzi, in certo senso tutti gli artisti veri hanno un proprio repertorio classico in mente; ma in Lilloni mi pare che il fenomeno sia particolarmente accentuato e, in ogni modo, nettamente personale come gusto di grafia, tocco impaginazione, colore. I verdi, i gialli, i rossi, gli azzurri della sua tavolozza, così leggeri, tersi, trillanti e aerei vengono appunto dalla sua memoria decantatrice. Sono i velati colori della pianura lombarda in primavera, assorbiti all'epoca della fanciullezza e serbatisi intatti nelle loro diafane note negli occhi di quest'uomo ormai anziano eppure fanciullo. Così le forme degli alberi che popolano i suoi boschi, così le case dei suoi paesaggi cittadini che rievocano la Milano d'un tempo, romantica e amabile (un altro non avrebbe forse potuto dipingere la serie «Immagini di Milano» perchè qui è il ricordo che affiora suggestivo: il materiale documentario di cui Lilloni si è servito come spunto essendo lettera morta quando affetti e memoria non lo sostengono), così anche i suoi paesaggi della Riviera o di Venezia o della Scandinavia. Dove egli vada, quale visione si offra a lui e lo ispiri, nell'evoluzione egli inserisce se stesso, con il suo forse non troppo vasto ma sempre seducente repertorio plastico. E tuttavia va riconosciuto che le fitte pagine del libro della sua pittura non riescono monotone. Questo perchè egli non tende mai ad imporsi totalmente al suo tema, non nutre l'ambizione di travolgerlo, di annullarlo, non si scontra con esso: si incontra.
Egli ama e perciò non distrugge; piuttosto arricchisce di sè quello che ama, finchè lui si riflette nella sua creatura e questa in lui. Da ciò molta varietà pur nella unità dello stile espressivo e del sentimento. Il procedimento, spontaneo, non inquinato da cerebralismi, da letteratura, è evidente anche nelle composizioni. Qui la figura si mescola al paesaggio, alla natura morta, o a tutt'e due insieme, in modo integrale. Le sue donne nude, dalle carni lisce e pallide, dalle forme snelle e semplici dei bei vasi, incorrotte e pure leggiadramente e vagamente sensuali, carne e non carne, si inseriscono nella scena con una naturalezza armonica: che non è solo frutto di abilità compositiva, di buon calcolo degli spazi, di senso vivo dei ritmi, ma anche di una equivalenza tra plastica e sentimento. Quelle donne sono le vere ninfe di quei boschi primaverilmente arcadici nei quali Lilloni fa vivere in una luce diffusa e appena velata grandi alberi e arbusti tutti foglioline e germogli, coprendo le tela di segni e tocchi leggeri e minuti che nella loro grazia sommessa e precisa hanno un che di orientale. Quelle donne sono le naiadi di quelle acque chiare e fruscianti che egli evoca con un gioco sottile di colori trasparenti. E talvolta sono i personaggi del suo racconto fiabesco, così come talaltra lo sono viceversa le case, o gli alberi piumati, o le barchette, o le chiesine, chè la vena narrativa di Lilloni investe tutte le apparenze sensibili non solo la figura umana. Pittura felice, questa di Lilloni, dalla voce sommessa ed aggraziata, elegantemente aerea, tutta sottigliezze, con un che di fresco che rammenta l'erba al mattino vivificata dalla rugiada. E in questi nostri tempi tanto aspri, di disperate negazioni, di perentorie e spesso gratuite affermazioni, di ermetici discorsi, sovente fatti di parole sonore sì ma prive di senso, o di furbe «fumisterie», o di accessi di ogni genere, è pittura confortante. Perchè indica una schiettezza senza timori, un vero ordine mentale, una sensibilità raffinata, una autentica capacità di creazione poetica; insomma, non solo una genuina personalità artistica ma anche una moralità assai rara.